“Forza interiore, capacità di azione e di riflessione, capacità di scelta, senso di competenza: queste e tante altre caratteristiche servono per fronteggiare l’insicurezza, il disagio, la paura e la frammentazione interiore e dei rapporti che il nuovo millennio ci ha consegnato” (Menditto, 2006). Il secolo scorso, lasciato alle spalle oltre un decennio fa, ci ha catapultati in un mondo pieno di instabilità, incertezza, spaesamento.
La crisi economico-finanziaria sopraggiunta nel 2008 si è
sommata alle preesistenti difficoltà, inquinando ancor più il nostro ambiente, i nostri rapporti, il
nostro sentire, le nostre ferite. Al senso di vuoto e di disorientamento si è aggiunta la precarietà,
la scarsità del lavoro, la mancanza di una visione verso il futuro, in particolare per i giovani. La
speranza ha lasciato il posto all’oscurità (Menditto, 2012).
Nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, negli studi psicologici, si respira sempre più un malessere e una
patologia sotterranea, diffusa, impalpabile, difficile da afferrare e proprio per questo quotidiana,
quindi data per scontata. Non è un caso che restiamo meravigliati dalle azioni contro se stessi o
contro i familiari, dagli episodi di disperazione o aggressività che la televisione, la stampa, internet
ci trasmettono sempre più spesso. La caratteristica di quotidiano di questi episodi porta in
ciascuno di noi una pericolosa stereotipia della percezione che rende sempre più difficile cogliere
frammenti, elementi, comunicazioni che preannunciano atti aggressivi o autodistruttivi, forme di
angoscia o di non contenimento di sé, senso di frammentazione e di indicibilità della sofferenza
(Menditto, 2010, 2011, 2012).
Siamo immersi nella crisi.
Siamo immersi nella crisi. Sentirsi tranquilli e al sicuro è una esperienza desiderata ma sfocata,
lontana, forse dimenticata. Siamo in bilico su un ground instabile, che ci procura un continuo
tremolio e amplifica il nostro bisogno di stabilità e sostegno. Credo che gran parte di noi non
fossimo preparati a fronteggiare una tale quantità di esperienze così complesse, non fossimo
attrezzati con strumenti innovativi per fronteggiare una crisi di tale portata.
Questa crisi, che non offre sconti, dura, insormontabile, sta amplificando e trasformando le forme
della paura, del disagio, della patologia.
Questa crisi può anche rappresentare una insostituibile occasione per riflettere insieme e
individuare attitudini, valori, stili di vita e di comportamento per l’individuo e la comunità.
Dunque, la crisi può far emergere inesplorate sensibilità e inedite soluzioni.
Il Convegno “ Identità, reciprocità, dono di sé“, è una preziosa e imperdibile opportunità di
confronto sul piano disciplinare e interdisciplinare per la creazione di una visione concreta e
condivisa sulla nuova persona e sulle nuove e urgenti competenze in uno scenario cambiato
profondamente e inaspettatamente. Resta a noi, che siamo impegnati con impegno e passione
nella diffusione del sapere, nella formazione e nell’educazione a vari livelli, comprendere
anticipatamente nuovi principi e strumenti e trasmetterli in una sintesi comprensibile e fruibile da
tutti.
Sappiamo quanto la disciplina psicologica e psicoterapeutica dello scorso secolo ci ha sollecitato
fortemente a lavorare sulla differenziazione e a concepire la vita mentale in un’ottica
individualista. Sappiamo molto su come favorire il senso di individualismo, su come sentire il senso
di separazione.
Nelle società contemporanee ciascuno si sente sempre più autosufficiente, ma nello stesso tempo
dipende da servizi e apparati tecnologici, da forme sofisticate di addiction che non controlla. A
tutto questo corrisponde un’instabilità e incertezza di rapporti se non una carestia di relazioni, che
permeano e sfrangiano il senso di sé, la vita affettiva e il senso di appartenenza alla comunità
(Menditto, 2011)
Ci stiamo interrogando e confrontando da poco su come favorire il senso di appartenenza e di
connessione gli uni agli altri.
Economia e psicologia in dialogo
Anche le altre scienze sull’uomo nello scorso secolo ci hanno formato più all’individualismo e
meno al senso di appartenenza. Le discipline economiche hanno privilegiato l’Homo Oeconomicus,
cioè un individuo svincolato dal proprio ambiente sociale e tendente unicamente al
soddisfacimento dei propri bisogni materiali, dotato di perfetta razionalità. Negli ultimi vent’anni
nella disciplina economica si sono compiuti forti passi in una direzione diversa da quello che viene
considerato il "mainstream". Studi di taglio empirico e sperimentale hanno obbligato l'economia a
ripensare i suoi fondamenti, ad aprirsi a nuove prospettive e a dialogare con altre discipline,
principalmente la psicologia. L'assegnazione dei premi Nobel per l’economia a Kahneman e, per la
pace, a Muhammad Yunus testimoniano che si sta virando verso un nuovo paradigma, che integra
argomenti della ricerca psicologica con le scienze dell'economia. Il microcredito, l'economia
sostenibile, il commercio equo e solidale non sono una realtà di nicchia, ma vedono coinvolti
milioni di individui che vogliono creare valore sociale, ambientale insieme al valore economico e
allo sviluppo. (Becchetti, Bruni, Zamagni, 2010). Le diverse discipline segnalano un movimento di pensiero impercettibile e un lento e inesorabile cambio di rotta sulla visione della persona, della
società, del bene comune.
Nel nuovo secolo stiamo assistendo al passaggio dall’Homo Oecomonicus all’Homo Reciprocans
(Menditto, 2010; Becchetti, 2010).
La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal
solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza e di tornaconto (auto interesse)
dell’homo oeconomicus, ma dalla costruzione dell’uomo nuovo, l’homo reciprocans, che apre se
stesso alla reciprocità per sviluppare le proprie capacità e tendere al bene comune.
In un’epoca di trasformazione epocale, l’individualismo sta lasciando il posto ad una cultura di
nuova visone dell’uomo, che traghetta verso la relazione di reciprocità.
La svolta relazionale
Con sempre maggiore evidenza la relazione intersoggettiva appare come l’espressione di un
bisogno psicologico primario, un’esperienza di interazione reciproca nella quale rintracciare la
chiave di lettura necessaria per comprendere lo sviluppo umano e il disagio psichico, il significato
autentico dei rapporti sociali e la loro possibilità di integrazione, le caratteristiche qualitative insite
nella reciprocità e nell’esperienza relazionale che da essa discende.
La svolta relazionale ha focalizzato l’attenzione sulla dinamica della relazione di reciprocità, sulla
co-costruzione della relazione nella zona del confine di contatto (Menditto, 2008,2009,2010).
Le discipline psicologiche e psicoterapeutiche attuando questo viraggio verso “la svolta
relazionale” individuano nella dinamica della relazione di reciprocità la fonte del benessere
individuale, dell’equilibrio nelle relazioni, dell’appartenenza alla comunità.
La dinamica di reciprocità sottolinea che la connessione con l’altro rende possibile la costruzione
di un senso di sé dove convivono molteplicità e unità, differenza e appartenenza, individuo e
comunità (Menditto, 2006, 2008, 2009, 2010, 2011). Per molti anni, seguendo la tradizione
psicoanalitica, la vita mentale è stata concepita in un’ottica individualistica, come un evento
puramente intrapsichico, senza alcun riferimento specifico alla dimensione relazionale e
intersoggettiva dell’individuo.
Nell’attuale ricerca psicologica questa visione non è più accettata come in passato e si afferma con
forza che le menti umane sono concepite essenzialmente come “fenomeni sociali”, che solo
successivamente divengono oggetto dell’elaborazione individuale.
La relazione organismo-ambiente è, fin dalla nascita, il “luogo” e l’origine di ogni evento psichico.
La vita mentale non emerge dall’interno, manifestazione di oscuri dinamismi intrapsichici, né dall’esterno, come reazione a specifici stimoli ambientali. Essa nasce dall’ininterrotta interazione
tra l’organismo e il suo ambiente.
Nella complessità dei saperi servono esploratori verso questa nuova direzione, capaci di riflessione
profonda, votati alla ricerca d'un nuovo umanesimo, che permetta all'uomo contemporaneo di
sentire il senso di se stesso armonizzato con il senso di connessione con l’altro. Inoltre, in questo
passaggio epocale che si sta attuando in tempi difficili, la relazione di reciprocità non può essere
considerata come un punto di arrivo. Essa deve rappresentare una tappa imprescindibile dello
sviluppo ma non la meta ultima per la realizzazione dell’individuo in armonia con il senso di sé e il
senso della comunità.
Paura della diversità
Ma come rendere possibile questo “balzo culturale” se i modelli sociali e i mezzi di informazione
amplificano la paura per l’altro e per la diversità? Oggi definiamo la nostra identità
sull’appartenenza a un sintomo, a un brand, a un reality, a un forum, anziché sulla percezione
della differenza o dell’espressione della nostra voce come uscita dal coro, riconoscibile nella sua
diversità. Il senso di noi stessi oggi si lega ad un senso di appartenenza volto alla dipendenza e al
consumo delle cose o dell’altro e non alla tensione verso l’incontro con l’altro o verso la relazione
duratura nel tempo. Le nuove forme di comunicazione amplificano questa tranquillizzante
sensazione di appartenenza “mercificata” ad uno stesso gruppo, anche su scala mondiale e
virtuale. Anzi meglio. Perché apparteniamo senza “la fatica dell’investimento della relazione face
to face”. Basti pensare al fenomeno di Facebook e come sia facile “aggiungere o eliminare
un’amicizia, segnalare o modificare, premendo solo un tasto, il proprio stato di impegnato o di
single. Essere collegati all’altro, a centinaia di altri, senza appesantirsi della responsabilità della
relazione e del dialogo offre un sollievo momentaneo, un immediato ansiolitico, un subitaneo
antidoto alla solitudine e alla carestia delle relazioni”.
Nel predominio di un sentire istantaneo, “mordi e fuggi”, che tende alla momentanea
soddisfazione del bisogno, ci sentiamo autosufficienti, non ci impegniamo per la salvaguardia dei
nostri beni relazionali, che ci renderebbero dipendenti dagli altri e dunque vulnerabili. Le nostre
debolezze e le nostre ferite non le sveliamo nell’apertura di un incontro, preferiamo controllarle o
negarle.
La nostra identità sembra poggiare più sul fuori e meno sul dentro. Il fuori al quale ci appoggiamo
è prevalentemente le cose e meno le relazioni. Ci condanniamo al “bisogno di un’eterna
dipendenza” o di “una infernale autosufficienza”per evitare di percepire il vuoto, lo smarrimento,
le nostre e le altrui ferite.
La crisi elemento costitutivo dell’identità
Come sottolineavo precedentemente, la crisi individuale va inquadrata nel contesto della crisi
sociale, familiare, del lavoro, che stiamo vivendo. A mio avviso, la crisi odierna non è solo
economica ma soprattutto valoriale. Siamo nella bufera, siamo in bilico su un ground instabile, che
ci procura un continuo tremolio e amplifica il nostro bisogno di stabilità e sostegno. Oggi siamo
costretti a parlare di “crisi nella crisi”. Oggi, a malincuore, apprendiamo che il porto d’arrivo in cui
poterci percepire finalmente al sicuro, non esiste più. La mancanza di un approdo modifica
significativamente il ruolo delle professioni di cura e dell’educazione, della formazione che non è
più quello di accompagnare le persone che si trovano in una condizione di crisi verso un porto
d’arrivo, ma quello di aiutarli a stabilizzarsi nella crisi. Altra caratteristica delle relazioni odierne è
che nascono e crescono nella “bufera” della crisi. Dunque la relazione nel suo complesso permane
nell’instabilità.
La crisi non va più considerata come un momento di passaggio della vita, dell’esperienza e
dell’identità, ma un elemento costitutivo della vita, dell’esperienza, dell’identità.
Il ground instabile e dal quale dipendiamo
La persona poggia se stessa e il proprio percorso di autorealizzazione su un ground sismico, che,
tremando costantemente sotto i piedi, non la rassicura e la costringe ad attaccarsi ad esso nel
tentativo di trovare una sorta di equilibrio che non la faccia cadere o ferire. Eppure, fino a qualche
decennio fa, eravamo in contatto con un ground che ci sosteneva, potevamo puntare i piedi su di
esso per spiccare il volo verso la differenziazione. La nostra identità si confermava nel passaggio
dal sostegno ambientale alla differenziazione. Nell’era postmoderna la situazione si è ribaltata. Il
ground è planetario, affollato, con uno spazio vitale sempre più stretto, soffocante, ma
rassicurante e suadente nel mantenerci dipendenti ad esso, perché ci garantisce che possiamo
sentire un senso dell’esistenza nel cercare di possedere le cose che hanno gli altri, nell’
appartenere ad un forum, perché ci connettiamo ad un social network e ci sentiamo
autosufficienti.
Se fino a qualche decennio fa le discipline psicologiche e psicoterapeutiche mettevano in figura
l’individuo, attualmente, nella lettura dell’identità, del malessere e della patologia emerge in
figura l’importanza della lettura del ground, dello sfondo, del contesto, della comunità.
Nuove configurazioni dell’identità, delle paure, del malessere
Nella postmodernità il disagio psichico (e valoriale) sembra essere polarizzato se non dissociato :
si manifesta sia con un fiume di parole prive di densità, significato, simbolizzazione, sia con una
sottile e pungente l’indicibilità della sofferenza stessa. I nuovi sintomi – sempre più indefiniti,
incompleti, gassosi - emergono da una incapacità a narrare e simbolizzare le esperienze percepite
e vissute. Dunque è quasi impossibile elaborare (e di conseguenza narrare all’altro) l’esperienza.
Riducendosi o mancando la capacità di assimilare e simbolizzare, stiamo imparando a passare
direttamente dal sentire all’agire. Ci stiamo allontanando dall’ascolto degli incipienti segnali della
sofferenza, adeguandoci ai modelli culturali imperanti, che favoleggiano un individuo che controlla
la sua vita, il suo fisico, le sue emozioni, i suoi contatti (molti dei quali virtuali). I nuovi sintomi
sono nutriti da una particolare “incomunicabilità” che per alcuni aspetti li rende “impenetrabili”,
“indecifrabili”. L’incomunicabilità isola l’individuo, lo rende ancora più solo, lo costringe a cercare
una sterile e inappagante “compagnia” nel rapporto con l’oggetto acquistato e subito
“consumato”. L’esperienza del malessere viene “agita”o “negata”, mentre la sofferenza diventa
indicibile sia a se stessi sia all’altro. La narrazione di sé, che apre alla comunicazione e all’incontro
con l’altro è frammentata, defocalizzata, spettacolarizzata. L’uomo postmoderno privilegia il
controllo e la padronanza di sé, si ripiega narcisisticamente su se stesso e, in accordo con i modelli
contemporanei, rifiuta l’ascolto di qualunque tipo di ferita o fragilità. A ben vedere, dietro queste
diffuse modalità si cela il mito dell’indipendenza totale e dell’autosufficienza. Ciascuno di noi è
chiamato a percepirsi sicuro se diventa autosufficente, vale a dire indipendente dagli altri.
L’autonomia ha lasciato il posto ad una illusoria autosufficienza dai beni relazionali.
Fiducia in se stessi e autosufficienza
A partire dagli anni ’80 nelle società occidentali si afferma l’idea che “la fiducia in se stessi” sia una
chiave di svolta dello sviluppo personale e sociale. Una volta che si raggiunge la fiducia in se stessi
tutto il resto viene di conseguenza: successo, felicità, riuscita professionale, amore. Insomma, si
spinge l’individuo a perseguire un senso di fiducia ridotta a mero prodotto da supermercato, ad
una sorta di marca per vendersi meglio, ad una competenza personale da sviluppare per
raggiungere benessere, successo, controllo del proprio corpo. E il messaggio è sottile: se non riesci
a realizzare la fiducia in te stesso sei il solo responsabile dei tuoi fallimenti. Nessun altro elemento
(salute, imprevisto, relazioni …) viene preso in considerazione. Questo modo distorto e fuorviante
di intendere “la fiducia” provoca nell’individuo un cambiamento nel modo di intendere la vita e i
rapporti: si polarizza sulla paura di tutto ciò che sfugge al proprio controllo e amplifica la diffidenza
verso l’altro.
Naturalmente con questi vissuti destabilizzanti emerge – talvolta in forme patologiche come
l’ansia, la dipendenza, la depressione - la paura per l’imprevisto e l’inaspettato, che per la natura
di cui sono composti, non possono essere pre-visti o controllati anticipatamente.
Per tamponare questa incapacità emotiva, l’individuo attua comportamenti compulsivi,
dipendenti, auto ed etero aggressivi, pur di neutralizzare ciò che percepisce, anche lontanamente,
come pericoloso. Questi comportamenti compulsivi, aggressivi, dipendenti, stabilizzano l’ ansia, il
vuoto, la solitudine, in una escalation “contagiosa” nei rapporti con gli altri.
Sappiamo bene che se ci polarizziamo quotidianamente sugli espedienti individuati per allontanare
la paura e l’angoscia, ed evitiamo l’ascolto profondo di noi stessi, ci allontaniamo dal nostro
sentire e dagli altri, rifuggiamo l’ incontro inteso come apertura.
L’uomo in bilico (Bellow, 1976) ha paura ed è insicuro. Il proprio grido resta inascoltato e lo fa
ripiegare solo sul proprio dolore. Eppure l’essenza più profonda dell’essere umano è essere in se
stesso relazione e fatto relazione da un altro.
L’individuo va aiutato a ri-considerare la dimensione affettiva una terra preziosa da coltivare, il
luogo privilegiato dove avviene la co-costruzione del legame grazie alla dinamica della reciprocità
in quell’area condivisa tra l’io e il tu, nella quale il riconoscimento dell’altro conduce ad un più
chiaro senso di sé.
L’Altro è indispensabile per definire chi siamo stati, chi siamo, dove stiamo andando. L’altro è
indispensabile per definire il nostro senso di sé. L’individuo, riannodando il contatto con l’alterità,
ritrova il proprio senso di sé.
Possiamo affermare con certezza che nella visione della nuova persona il senso di differenziazione
va armonizzato con il senso di connessione e di indivisibilità dall’altro e dalla comunità.
L’apertura all’altro e l’esperienza del dono
Già in “Realizzazione di sé e sicurezza interiore” intravedevo un nuovo orizzonte per l’identità
postmoderna: “Realizzare se stessi è uno snodarsi di tappe nel percorso individuale di una persona
che cerca il senso reale e profondo della propria esistenza e del personale senso di efficacia nella
vita. Cercare, inoltre, l’appartenenza e l’unione con gli altri mettendo passione ed impegno è uno
dei momenti maggiormente autorealizzativi “(Menditto, 2006).
Per realizzare noi stessi, secondo questa visione, abbiamo bisogno di fare un salto di prospettiva:
soddisfare il bisogno di autoaffermazione, radice della sua sicurezza interiore, per poi svincolarci
da una visione di sé ego centrata, e tendere ad una visione di autoaffermazione, più evoluta
culturalmente, perché include la visione di un uomo o di una donna che ambiscono alle proprie
mete e mantengono la connessione con la comunità nella quale si coinvolgono con impegno,
passione ed etica. Il percorso di autorealizzazione prevede spingere “se stessi oltre se stessi” in un
rapporto con la comunità dove la generosità, il dono, la ricerca del bene comune siano inclusi e
coltivati nel quotidiano.
Una realizzazione personale vera, etica e non conformista, tende a perseguire una grado di
rilevanza che non si misura con l’ambito di eccellenza raggiunto. Ciò che interessa è il grado di
rilevanza, il significato che la persona raggiunge con gli altri: un significato affettivo, etico,
donativo. L’autorealizzazione che poggia sia sull’autoaffermazione sia sulla donazione di sé sviluppa una inedita dinamica relazionale e una nuova configurazione dell’ identità, che armonizza
la differenziazione con l’indivisibilità (Menditto, 2006, 2008, 2010).
“L’Autorealizzazione include la compresenza di me e dell’altro nel campo relazionale e il
riconoscimento di me e dell’altro in una nuova entità: il Noi. La persona nel suo percorso verso la
realizzazione di sé, opta per l’impegno verso se stesso e verso la relazione (Menditto, 2006).
L’autorealizzazione che tende ad armonizzare l’affermazione di sé con la connessione con l’altro,
vede la persona intenta a coniugare con coscienza, generosità, etica l’autoaffermazione di sé con
la ricerca del bene comune, sia che si tratti del proprio lavoro, di avere cura dei propri cari, di
proteggere i diritti dei più deboli, o di dipingere, scrivere poesie, giocare a pallone. Questa nuova
forma di reciprocità, che stiamo intravedendo in nuce, può favorire l’accesso a una tappa “più
elevata” di reciprocità: accompagnare l’individuo in un percorso di autorealizzazione dove spinge
«se stesso oltre se stesso», perché l’altro è pre-visto.
Siamo alla ricerca di stili di vita, comportamenti, valori che sostengano l’attività vicendevole, il
sentimento reciproco e la mutua consapevolezza. L’apertura all’altro deve trasformarsi da mera
esperienza psicologica e della mente ad azione e pratica quotidiana di attitudini squisitamente
umane come l’amore, l’amicizia, l’attenzione, la gratuità, il dono. Nelle relazioni l’amore che sento
per l’altro dovrebbe trasformarsi in azioni ordinarie. L’Amore deve poter essere coniugato con il
Logos (mi apro a te e il mio amore lo concretizzo in azione). L'individuo che procede in questa
forma “più elevata” di relazione di reciprocità incontra l’esperienza del dono, della gratuità in
molteplici forme della vita quotidiana, spesso dimenticate a causa di una visione produttivistica e
utilitaristica dell'esistenza.
In un’epoca nella quale, come ci dice don Tonino Palmese, le parole sono stanche, dobbiamo
essere testimoni di speranza, sostenitori di un orizzonte dotato di senso, per coloro che ci
confidano lo spaesamento, il disagio, il vuoto, l’angoscia di vivere in questi tempi difficili che non
lasciano intravedere un futuro (Palmese, 2011).
“La sfida che oggi attende la psicologia consiste, forse, non solo nel cogliere e teorizzare, come è
stato già fatto, la reciprocità da cui nasce l’intersoggettività, il riconoscimento dell’altro, la lettura
e l’interpretazione delle menti …..la nuova sfida risiede nella tendenza a definire quella particolare
forma di reciprocità, ancora del tutto inesplorata, che rende possibile l’indivisibilità, il sentire
comune, fra gli individui e che si radica sul dono di sé, sulla gratuità, sull’accoglienza senza
condizioni o tornaconto” (Cavaleri, 2009).
Aprirsi all’incontro e alla dimensione comunitaria
Stiamo nel mezzo della preparazione all’epifania di una cultura interdisciplinare intorno all’essere
umano, grazie alla quale viene sollecitata la dimensione comunitaria. Il pensiero comunitario
concorda con le affermazioni che sostengono l’aspetto relazionale dell’uomo, in quanto solo in esso la persona può definirsi e riconoscere la propria diversità, la quale si rivela attraverso la
comunione interpersonale con l’altro.
Negare l’altro rende incomprensibile se stessi.
Se da un lato l’Altro è indispensabile per definire il senso del sé, dall’altro la sua semplice presenza
mi inquieta per il grado di ignoto che contiene; il suo riconoscimento mi suscita una provocazione,
una messa in gioco della mia libertà, una riduzione della mia autonomia e una sollecitazione alla
responsabilità. L’incontro è “appeso” al fragile filo della libertà umana ed è per questo che può
essere difficile da realizzare, proprio perché non è subordinato ad alcuna condizione (non può
essere imposto). La storia di ciascuno di noi, infatti, ci ricorda che la vita è piena di incontri
immaginati e poi “mancati”, di “scontri”, di forti sensazioni di paura, di fragilità, di frammentazione
di fronte anche solo all’eventualità di aprirmi all’incontro con l’altro. Con queste premesse,
sentirmi attore insieme all’altro nella co-costruzione dell’incontro, mi sollecita a re-spondere al tu
nel qui ed ora, sapendo che non posso essere costretto, e quindi sono tentato verso la benevolenza.
L’incontro con l’altro mi vede partecipe della donazione di ciò che ho e di ciò che sono. È
una donazione che non procura perdite ma genera arricchimenti, moltiplicazioni, crescita del
proprio essere, decrescita del proprio ego. Tale apertura vede emergere la dimensione spirituale
della persona. Questa prospettiva di indagine è stata sviluppata anche da Gabriel Marcel, Max
Scheler, e dallo stesso Giovanni Paolo II, secondo i quali l’attività comunicativa/relazionale è
dimensione irrinunciabile della stessa esistenza umana ( F.Altarejos Masota, C.Naval Duran,
Filosofia dell’educazione, 2003, pag.160-163).
L’incontro contiene in sé un’opportunità di generosità, di dono, di gratuità, è farsi “prossimo”
all’altro. Volendo utilizzare una metafora a me cara, l’incontro che contiene queste caratteristiche
affina in noi la capacità di “aprire la porta prima che l’altro “bussi” (Menditto, 2010).
Per realizzare nel quotidiano questo grado di rilevanza della funzione autorealizzativa, l’incontro
non va letto solo in una dimensione antropologico-esistenziale, ma anche in una dimensione etica.
Infatti nell’incontro si realizza il riconoscimento dell’altro che non è subordinato ad alcuna
condizione, è dono che può trasformasi in grazia di sentirsi riconosciuti e di riconoscere l’altro.
Molti studiosi concordano sulla necessità di riappropriare l’uomo di uno degli aspetti ineliminabili
della propria esistenza. Il pensiero di Lévinas è un’esaltazione dell’epifania dell’altro.
L’incontro/relazione con l’altro determina per Lévinas la costituzione etica della teoria della
differenza: il nostro rapporto con il mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un
rapporto con l’altro (E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1990). L’uomo acquista
significato solo in relazione all’altro, cioè attraverso una comunicazione interumana nella quale
l’altro non viene assimilato a me.“… la soggettività umana, per la sua condizione di persona, si
mostra nel suo agire come intersoggettività radicale, che è lo sfondo antropologico dell’essere
umano come animale sociale, ma ciò non significa soltanto apertura agli altri, bensì anche a se
stessi” (F.Altarejos Masota, C.Naval Duran, op. citata, 2003, pag.165).
Il tema dell’Alterità emerge con forza e si pone come elemento determinante per la svolta
antropologica, psicologica, filosofica, contemporanea.
L’incontro e la fiducia reciproca
Concordando con questa incipiente visione di una “più elevata” reciprocità devo spendere qualche
parola sul sentimento della fiducia. Sopra accennavo al mito contemporaneo della “fiducia in se
stessi”, indispensabile nel nostro processo di sviluppo per “sentire” che possediamo un equilibrio
radicato sulle nostre risorse, che consolida il nostro senso di sé.
In questa nuova visone della persona, il senso di sé si costruisce anche attraverso l’apertura
all’altro e il suo riconoscimento. Di conseguenza, per un più consolidato senso di sé, la fiducia in se
stessi va armonizzata con la fiducia reciproca. Il donarsi all’altro, prevede lo svelamento delle
proprie risorse e dei propri limiti, delle proprie ferite. Di fronte all’ignoto dell’incontro con l’altro,
devo attingere alla fiducia reciproca intesa come opportunità, scommessa, dono.
Aprendomi all’altro, narrandomi, do il via alla creazione di uno spazio donativo, accettando la
novità e l’imprevedibilità che l’altro contiene. Donandomi a te, svelandomi con le mie possibilità e
i miei limiti, mi sto fidando della relazione che si sta schiudendo tra me e te. Diversamente dal
mito illusorio della sola fiducia in sé descritto prima, in questa dimensione della fiducia reciproca,
che precede ogni incontro autentico, le mie ferite possono diventare “il ponte” che permette di
giungere ad una nuova forma di relazione di reciprocità. Restituire alle ferite il diritto di pulsare
nella mia identità e nell’incontro con l’altro, può aprire la strada alla fiducia verso l’altro e al dono.
“Quando do fiducia a qualcuno, dipendo dalla sua buona volontà nei miei confronti” (Annette
Baier, 1986). Sto credendo in te e nella possibilità dell’incontro con te, senza aver testato
preventivamente se tu ne sia degno.
La fiducia è sempre pericolosa. È una sorta di rischio, che implica l’eventualità che il depositario
della mia fiducia possa deludere le mie aspettative o possa tradire la fiducia che gli ho concesso.
Inoltre, la fiducia ci riporta alla natura stessa dell’esistenza umana, al fatto che non siamo mai
completamente indipendenti dagli altri e autosufficienti. Infatti, come dicevo prima, per il nostro
star bene non è sufficiente costruire la fiducia in se stessi, dobbiamo fare l’esperienza della fiducia
reciproca, aprirci alla consapevolezza dell’indivisibilità e della connessione, sapendo che ci stiamo
immergendo nel rischio.
Fiducia in sé e fiducia reciproca vengono armonizzati nella trasformazione del sé.
La costruzione di una relazione reciproca, donativa, etica
Sembra evidente che la relazione di reciprocità è un passo indispensabile ma non è il punto di
arrivo agli albori di questo nuovo modello antropologico, nel quale la singola identità non
considera più l’imposizione sull’altro e la negazione della propria diversità una forma “costruttiva
e maturativa” dell’autoaffermazione.
La nuova persona considera l’autorealizzazione una percorso a tappe “evolutive” nel quale il senso
di sé e della propria sicurezza interiore si armonizzano in una tappa ulteriore che pre-vede l’altro
nella propria realizzazione.
Sembra delinearsi una nuova forma di relazione di reciprocità nella quale l’individuo si fa “dono”
all’altro, dischiude la relazione di reciprocità in una un’opportunità (e non una obbligatorietà)
poggiata anche sulla fiducia reciproca. L’apertura a questa parte incognita e inquietante
dell’incontro è resa possibile anche grazie allo svelamento dei limiti e della ferite di entrambi i
soggetti. La fragilità condivisa e non “negata” diviene lievito e occasione di dono.
All’interno di una tale relazione, le differenziazione è data per assodata, le diversità sono
riconosciute e utilizzate quali elementi fruttuosi ed indispensabili per la costruzione di una
relazione reciproca, donativa, etica, che tende a moltiplicare occasioni di solidarietà, altruismo,
arricchimento reciproco. L’incontro è fonte di connessione momento per momento, scaturita da
una scelta libera di donazione vicendevole; l’identità si forma e riforma in un ininterrotto processo
di armonizzazione, in modo unico e irripetibile, del senso di sé con la indivisibilità dall’altro.
Individuazione ed appartenenza non sono più antagoniste e generatrici di conflitti insanabili nello
sviluppo del sé, ma grazie alla reciprocità, alla capacità donativa, all’etica, possono integrarsi
pienamente e contribuire alla messa in azione nel quotidiano, non solo della dimensione
individuale ma anche della dimensione comunitaria dell’individuo. Questa nuova dimensione della
vita ordinaria – che coniuga l’autoaffermazione con il dono di sé - è alla portata non solo di
persone eccezionali ma anche della gente comune, che è la maggioranza (Menditto, 2006). La
nuova cultura comunitaria, la cultura del dare – diceva madre Teresa - è l’amore in azione. “quindi
se noi vogliamo amare dobbiamo arrivare all’azione e quindi al dare (Lubich, 2011, pag.67).
Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l'amore. L’amore dà vera sostanza alla
relazione con l’altro. In un’epoca in cui le parole sono stanche, dobbiamo essere testimoni di
speranza, attuatori di quel sogno che vede il cambiamento dentro e fuori di noi concretizzarsi in
azioni quotidiane. Dobbiamo condividere l’esperienza che si è liberi e felici solo se lo si è insieme
agli altri. Il nuovo umanesimo attende alle porte dei nostri cuori e delle nostre comunità.
Maria Menditto