Spiritualità di comunione e ricerca del senso di sé 

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Vorremmo adesso condividere con voi, brevemente, alcuni dei principali spunti di riflessione che sono emersi nel corso dell’ultimo congresso di Psicologia e Comunione.                             

Nell’epoca della postmodernità, mentre l’uomo contemporaneo si ripiega narcisisticamente in se stesso e diventa “orfano” dell’altro, la psicologia asserisce, con rara univocità, che la mente è relazionale e che il rapporto con l’altro fonda e dà senso all’identità psichica di ogni individuo. La mente di ognuno sussiste, si organizza ed evolve nella misura in cui stabilisce contatti intersoggettivi, cioè rapporti umani capaci di farle sperimentare il reciproco riconoscimento. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno dimostrato come il nostro sistema nervoso sia costruito per potersi “agganciare” a quello degli altri esseri umani, tanto da poter fare esperienza degli altri “come se” ci trovassimo nella loro stessa pelle.

      Oggi, all’inizio del nuovo millennio, possiamo affermare con certezza che il “centro di gravità” della psicologia si è decisamente spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo e che un approccio “monopersonale” alla psiche umana non è più sostenibile. L’intersoggettività, cioè la reciproca relazione della nostra mente con la mente degli altri, si rivela fondamentale e indispensabile per comprendere la vita psichica, sia nei suoi aspetti funzionali che in quelli disfunzionali.

      Tuttavia, la reciprocità su cui si fonda la matrice intersoggettiva della mente non costituisce un orizzonte “ultimo”, sufficiente a contenere la complessità e le potenzialità dell’individuo umano. In un’epoca su cui incombono le guerre di religione e lo scontro fra civiltà diverse, occorre andare più oltre. La sfida che oggi attende la psicologia consiste, forse, non solo nel cogliere e teorizzare, come è stato già fatto, la reciprocità da cui nasce l’intersoggettività, il riconoscimento dell’altro, la lettura e l’interpretazione delle menti; ma anche nel definire quella particolare forma di reciprocità, ancora del tutto inesplorata, che rende possibile la comunione fra gli individui e che si radica sul dono di sé, sulla gratuità, sull’accoglienza senza condizioni.

      Quali sono gli atteggiamenti mentali che rendono possibile fra gli esseri umani la comunione e quali le chiavi di lettura psicologiche che ci permettono di comprenderli in modo adeguato? Quali sono gli elementi psicologici che caratterizzano quella “speciale” forma di reciprocità da cui soltanto scaturisce la comunione? Quella della comunione, paradossalmente, può essere considerata, sul piano psicologico, la più elevata espressione della realizzazione individuale?

      Aprendosi al confronto con questi interrogativi, la psicologia può trovare, fra le altre, una “sponda di riferimento” non trascurabile nella spiritualità espressa da Chiara Lubich.  La sua dottrina spirituale, infatti, sottolinea con vigore l’esistenza di una forma più “evoluta” e complessa di vita relazionale: la comunione. Essa si basa su un modo “ulteriore” di vivere la reciprocità, che potremmo definire reciprocità comunionale. Le caratteristiche psicologiche e le implicazioni emotivo-affettive della reciprocità comunionale sono significativamente diverse da quelle che connotano la più generica reciprocità relazionale.

      Quest’ultima, infatti, si fonda sul reciproco riconoscimento dei partner relazionali, sulla interpretazione e sulla lettura l’uno della mente dell’altro, sull’empatia, sull’accettazione delle reciproche diversità, ma non implica necessariamente l’incondizionata accoglienza di ciò che dell’altro è “letto” e “interpretato” o la totale disponibilità a condividere quanto dell’altro viene “riconosciuto”. La reciprocità comunionale, invece, non solo implica il riconoscimento e l’accettazione vicendevole, ma presume la “totale” ospitalità dell’altro, la tensione alla comunione piena, la reciproca appartenenza, l’apertura alla completa condivisione, la radicale disposizione al dono gratuito di sé.

      Ma di quale comunione stiamo parlando? Non certo di una comunione che risulta da un insieme anarchico di irriducibili individualità, le quali di fatto sfuggono ad una esperienza di reale “appartenenza”. Né tanto meno di una comunione che non riconosce dignità all’individuazione e che assorbe l’io nel “noi”, sacrificando l’individualità sino a disconoscerla del tutto.

      Piuttosto vogliamo riferirci ad una comunione “diversa”, dove individuazione e appartenenza non si contrappongono, ma si integrano pienamente; dove ciascuno esprime la propria identità non negando l’altro, ma aprendosi all’incontro con lui; dove l’appartenenza non mortifica la diversità, ma la riconosce e l’accoglie nel suo multiforme dispiegarsi.

      Nella spiritualità di comunione la mia individualità raggiunge la sua pienezza e il suo compimento se è totalmente aperta all’altro. L’altro che incontro non è mai un “qualsiasi e generico” altro. Ogni singolo individuo, infatti, è sempre espressione di una parola, di una singola e originaria Idea, che l’Amore, ha avuto nel chiamarlo alla vita[1]. In questo “inedito” modello antropologico, la singola identità non si afferma più imponendosi all’altro, negandogli la differenza o riducendolo a sé.

      L’uomo nuovo, che si delinea e che fa compiere un decisivo salto evoluivo all’umanità, afferma se stesso nell’assoluto “darsi”, è “non-essendo” per l’altro, in una relazione con lui nella quale egli si fa “dono” gratuito e diventa termine di reciprocità. All’interno di una tale relazione, le differenze non emergono per contraddire l’altro, per competere con esso, ma per cooperare alla sua stessa edificazione. Ciascuna differenza è per l’altro e, a motivo di ciò, è continuamente trasformata in “dono”.

     Una “speciale” forma di relazione, quindi, che abbiamo definito reciprocità comunionale. Essa si presenta essenzialmente come “edificazione reciproca”, come vicendevole dono delle proprie differenze. In questa “reciproca interconnessione” di doni, ciascuna identità realizza ed esprime se stessa senza per questo negare la comunione. Si profila, così, un paradigma relazionale nuovo, in virtù del quale possono coesistere e svilupparsi insieme personalità individuale e comunione.

      In una relazione di reciprocità, intesa in questi termini, la centralità della comunione non elimina, né assume in sé, la centralità della personalità individuale. L’esperienza del “noi”, alla quale approda la reciprocità comunionale, non cancella, né assorbe al suo interno, la differenza e la distinzione attraverso le quali si esprime l’identità unica e irripetibile dell’io. Dischiudendosi all’altro, in un’apertura accogliente che si fa dono di sé, fino a non-essere-per-l’altro, l’io attraversa l’esperienza del noi per poi riappropriarsi di una identità più arricchita, qualitativamente diversa da prima, “individuata” in maggior misura, in quanto capace di coniugare l’affermazione piena di sé con la donazione di sé.

      Sottolineando con estrema convinzione il non trascurabile valore psicologico di questa nuova dinamica relazionale che unisce l’io all’altro, Chiara Lubich afferma: ”il mio amore non soltanto conferma lui nell’essere distinto da me, uguale a me, trascendente come me, ma ‘fa essere me’. Solo l’amore rende conto della diversità (o distinzione) salvando l’uguaglianza e rendendo così possibile l’unità”[2]

      La spiritualità di comunione concepisce un uomo che delinea la propria identità e la riveste di senso nella misura in cui fa dono di sé all’altro e con lui si impegna in un movimento di reciproco “riconoscimento”. La reciprocità di cui stiamo parlando non si fonda sullo scambio del dare e dell’avere, non è neppure la reciprocità dell’amicizia, che non sa aprirsi al “non-amico”.

      E’ piuttosto una reciprocità che coinvolge “ogni” altro e che è gratuita, non attende cioè restituzione o ricompensa, è “incondizionale. E’ una reciprocità che accoglie per intero la fragilità della relazione e la debolezza dei suoi protagonisti, trasformando tali limiti in ulteriori esperienze di donazione.

      L’umanesimo di cui parla Chiara Lubich non solo introduce un orizzonte di intensa luminosità nella “notte oscura” della cultura occidentale, ma ci lascia intuire come, al di là delle tante derive della postmodernità, la psicologia contemporanea stia per molti versi già “incubando” questo “nuovo umanesimo”. Si tratta di una “incubazione” che è possibile intravedere, benchè ad uno stato ancora incipiente, soprattutto attraverso quei filoni di ricerca che indicano nella relazione con l’altro, nell’esperienza di riconoscere e di essere riconosciuto, nella dinamica della reciprocità alcuni dei principali tratti salienti e costitutivi della vita mentale di ogni singolo individuo.

     La sfida che attende adesso la psicologia consiste non solo nel reinterpretare e ridefinire la realtà individuale e intrapsichica, non solo nell’approfondire ed esplicitare ulteriormente la prospettiva relazionale e intersoggettiva, ma soprattutto nell’orientare con maggiore decisione la ricerca psicologica sia verso quella forma più “elevata” di relazione umana che è la comunione, sia verso quella speciale forma di reciprocità che la rende possibile e che abbiamo chiamato reciprocità comunionale.

       



[1] Cfr. H. Blaumeiser, “All’infinito verso la disunità“. Considerazioni sull’inferno alla luce del pensiero di Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, 1997, 113, pp. 543-570.

[2] C. Lubich, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Lettere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, in “Nuova Umanità”, 1999, 122, p. 186.

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