Roberto Almada Careño
1. La realizzazione individuale come categoria moderna
Può essere utile chiederci, fin dall’inizio, quale significato si debba attribuire oggi alla parola autorealizzazione. Facendo ricorso ad essa, vogliamo riferirci alla piena espressione e attuazione delle potenzialità di cui ciascun individuo è dotato? O, piuttosto, vogliamo intendere un realizzarsi “da sé”, cioè una realizzazione di sé solitaria, autoreferenziale, autosufficiente, perseguita senza la compagnia dell’altro e, addirittura, in contrapposizione all’altro?
L’insidiosa ambiguità del termine appare in tutta la sua evidenza. Sicchè, per rispondere all’interrogativo posto, occorre forse tentare di cogliere, in via preliminare, il complesso percorso culturale attraverso il quale, non senza contraddizioni, l’individuo moderno ha legittimato la propria libertà e ha affermato il proprio diritto ad asserire se stesso come soggetto autonomo, ponendo così le basi per una nuova concezione dell’uomo, che tanta influenza ha poi esercitato sulla psicologia del novecento.
Il desiderio di realizzare pienamente le proprie aspirazione, le proprie potenzialità personali, costituisce l’istanza che, forse più di ogni altra, motiva e orienta l’uomo contemporaneo. A differenza di un passato non lontano, in cui le esigenze individuali venivano appannate da quelle comunitarie, oggi il bisogno di affermarsi, di rendersi visibile, di distinguersi, di essere riconosciuto nella propria unicità, pare sia divenuto un elemento costante, quasi una “ossessione”, dell’uomo occidentale.
Si tratta, indubbiamente, di un bisogno autentico, il cui emergere segna il definitivo riconoscimento della dignità di ogni singola persona umana e della sua legittimità ad esprimersi. Più che vedere con sospetto o con malcelato moralismo un tale fenomeno sociale, occorre probabilmente imparare ad apprezzare meglio il travagliato percorso culturale di cui esso è espressione e tentare, al contempo, di promuovere un largo confronto interdisciplinare sul modo in cui integrare la legittima tensione all’affermazione individuale con altre istanze, non meno importanti, che attraversano la società di oggi.
Benché l’individualità soggettiva sia emersa, con inequivocabile evidenza, già nella cultura greca e in quella giudaico-cristiana, è però con l’età moderna che essa si impone definitivamente a tutto il mondo occidentale, costringendolo a declinare sulla propria misura ogni aspetto della vita sociale, dalla famiglia alla religione, dalla morale sessuale ai modelli di comportamento relazionale, dall’economia alla politica.
Nel pensiero moderno il tema dell’autorealizzazione individuale si intreccia con quelli contigui dell’autodeterminazione e della libertà1. Nella cultura moderna, infatti, la piena realizzazione del soggetto passa attraverso la sua liberazione dalla povertà, dall’incompiutezza, dalla coercizione esterna, dai condizionamenti sociali. Gradualmente la realizzazione della libertà individuale finisce per coincidere e identificarsi con l’autonomia, con il potere di autodeterminarsi, di disporre dei propri atti senza doverne “misurare” il valore su altri da sé.
All’interno di un medesimo processo culturale, che plasma in maniera incisiva l’Europa moderna, benché in tempi e con modalità diverse, Lutero asserisce in ambito religioso la libertà di coscienza dell’individuo, mentre Kant rende la morale definitivamente autonoma dalla religione. Il filosofo tedesco, infatti, pone la libertà individuale fuori da qualsiasi condizionamento metafisico e da ogni interferenza eteronoma. Per Kant la libertà morale dell’individuo può trovare una sua autonoma fondazione e legittimazione soltanto all’interno dell’esperienza soggettiva, divenendo in qualche modo autoreferenziale, un questione privata, non più orientata al Sommo Bene o, comunque, al trascendente2.
L’ideale kantiano di una “comunità della ragione” rende possibile fondare la morale non più dall’esterno, ma dall’interno del soggetto. Nonostante l’imperativo kantiano imponga di percepire l’altro come fine e mai come mezzo, l’individuo autonomo rivendica tuttavia la propria libertà morale senza mediazione alcuna, modulandola interamente sulla base della sua soggettiva singolarità.
Se, dunque, il percorso che conduce alla libertà, cioè alla piena espressione di sé, all’autorealizzazione, passa inequivocabilmente attraverso l’autonomia e l’autodeterminazione, quale concezione ha il pensiero moderno della comunità sociale e della relazione che intercorre tra essa e il singolo individuo? Per tentare una risposta a questa domanda può risultare utile rifarsi a due filosofi moderni, Hobbes e Rousseau, che hanno trovato una sponda molto attenta e ricettiva in buona parte della psicologia del novecento.
Per Hobbes, che aveva già preceduto Kant nell’impostazione razionalistica del pensiero moderno, l’uomo è animato da una “bramosia naturale”, cioè da un istinto che lo porta lontano dalla benevolenza verso l’altro e lo spinge invece nella direzione di un continuo antagonismo verso il suo simile3. Per sottrarre l’uomo dal gioco spontaneo e autodistruttivo dei suoi istinti occorre imporgli una disciplina che gli garantisca sicurezza e pace. La reciproca concordia fra gli uomini è possibile se ognuno di essi sottomette la propria volontà alla società civile ( lo stato come “anima della comunità”) e a coloro che la rappresentano.
La comunità, la società civile, dunque, appaiono come una costruzione “postuma” che i singoli individui razionali decidono di creare e di “subire” con il solo scopo di assicurarsi la concordia, la libertà dal bisogno, l’uso dei beni comuni, ma anche al fine di limitare l’autodistruttività incombente dei propri istinti. L’individuo è legato alla società da una sorta di inevitabile necessità che lo fa piegare ad essa, da un superiore bisogno di sopravvivenza che lo costringe a sottomettere la sua volontà ad essa e a limitare la sua libertà attraverso le norme da essa stabilite.
Rousseau, che esercitò non poca influenza sul pensiero di Kant, elabora un modello antropologico per il quale l’uomo è naturalmente e originariamente buono4. La sua decadenza e la sua perversione sono dovute a cause esterne alla sua volontà. Il filosofo ginevrino è assertore di un individualismo radicale, per il quale l’uomo non deve riconoscere altra guida che il sentimento interiore.
La società è una costruzione artificiale, che limita e distrugge la naturale spontaneità dell’uomo. L’ordine sociale non è un ordine naturale , ma nasce dalla necessità di assicurare la sopravvivenza e la conservazione degli individui. Il rapporto, che intercorre fra individuo e società, non può che essere altrettanto conflittuale. Questo lacerante contrasto può essere superato solo a condizione che la comunità si “riduca” alla natura. Ciò è possibile all’interno di una comunità nella quale “ciascun individuo non obbedisce ad una volontà esterna, ma ad una volontà generale che egli riconosce per propria e, quindi, in ultima analisi, a se stesso”5.
Pur partendo da una diversa concezione dell’uomo, sia Hobbes che Rousseau finiscono per delineare un rapporto individuo-società in cui il primo preesiste alla seconda e l’accetta solo come “necessità” inevitabile per garantire la propria sicurezza e conservazione. Per entrambi la società è il frutto di un “contratto”, di un patto fra individui, una “costruzione” resa necessaria unicamente dalla loro stessa fragilità.
Il conflitto individuo-società era ben noto sia al mondo greco, che a quello giudaico-cristiano. Tuttavia, mentre in quei contesti culturali la comunità appariva più centrale e sovraordinata rispetto all’individuo, col pensiero moderno un tale rapporto di forza appare decisamente capovolto. Sicchè l’individuo risulta preminente rispetto alla società e quest’ultima appare come conseguenza di una necessità volta a risolvere i bisogni individuali. Essa si profila unicamente come luogo dove uominiindividui, posti al riparo dall’insicurezza, possano finalmente affermare la propria libertà morale, la propria autonomia, il proprio diritto all’autodeterminazione.
La realizzazione dell’uomo moderno, dunque, passa attraverso l’affermazione di una libertà mai prima d’ora riconosciuta all’individuo. Una libertà, quest’ultima, a cui ogni individuo ha diritto e alla quale la società è chiamata a “ridursi”, a modellarsi docilmente. Questa concezione dell’uomo e della sua autorealizzazione, espressa dal pensiero moderno tra la prima metà del ‘600 e la seconda metà del ‘700, costituirà successivamente il modello antropologico di riferimento più accreditato per gran parte della psicologia del secolo appena concluso.
2. L’istanza dell’autorealizzazione nella psicologia del primo novecento
La concezione dell’uomo espressa dall’individualismo moderno si ritrova nelle pieghe della cultura positivista del diciannovesimo secolo e in particolare nell’antropologia di ispirazione darwiniana. In ambito psicologico è Freud ad accogliere per primo le istanze dell’uomo moderno. E’ il padre della psicoanalisi che riconosce e legittima aspetti salienti dell’individualità umana, come la sessualità e la corporeità, che dischiude alla conoscenza dimensioni della vita psichica, fino ad allora trascurate, come l’immaginario e l’inconscio.
Con Freud il disagio mentale viene colto per la prima volta come “luogo” di scontro tra natura e cultura, come espressione della negazione drastica di istanze individuali da parte della società e delle sue istituzioni. Con lui lo sforzo terapeutico è proteso ad adattare l’individuo alla realtà, senza per questo negare riconoscimento e dignità ai suoi bisogni. Tuttavia, nonostante la visione moderna dell’uomo abbia influenzato in modo significativo il pensiero freudiano, il tema dell’autorealizzazione non fa parte dei filoni di ricerca direttamente sviluppati dalla tradizione psicoanalitica.
Per Freud la realizzazione di sé, la felicità, non rientra nel piano della “creazione”. Come l’uomo di Hobbes, anche quello di Freud è costretto ad un doloroso “baratto”, che provoca in lui coartazione e sofferenza mentale. Per ottenere sicurezza e stabilità sociale, egli è costretto a controllare le proprie pulsioni sessuali e aggressive, limitando così la piena espressione di sé. La nascita della civiltà ha come prezzo insopprimibile un disagio, che preclude ogni via alla felicità, alla piena autorealizzazione6.
Della realizzazione di sé, o dell’attualizzazione di sé, parlano, invece, due fra i primi allievi di Freud: Adler e Jung. Soprattutto nella fase iniziale della sua ricerca, Adler fu molto interessato ad una prospettiva individualistica della vita psichica, tanto da delineare quella che poi chiamò “la psicologia individuale”. Secondo Adler il comportamento umano è interamente subordinato al “fine ultimo” verso cui tende ogni individuo7.
La tensione verso “lo scopo finale” coincide per lui con la ricerca continua di sicurezza, di crescita, di perfezione, cioè con un “impulso verso l’alto” che non si esaurisce mai. Per tutta la vita l’uomo è spinto a superare i limiti della propria condizione, a raggiungere il livello di sviluppo immediatamente successivo a quello appena conquistato. Nel bisogno di vincere la propria inferiorità, la propria incompiutezza, l’uomo trova la più grande forza propulsiva del suo agire.
Lo scopo della vita, dunque, ciò che fa sentire l’individuo realizzato, non è il raggiungimento del piacere, quanto piuttosto la possibilità di perseguire la perfezione. Progressivamente nel pensiero di Adler l’interesse sociale si sostituisce sempre più all’interesse individuale, fino al punto da vedere nell’interesse sociale “l’autentica e inevitabile compensazione di tutte le debolezze naturali degli esseri umani individuali”8.
Anche Jung sembra condividere questa sorta di “principio finalistico”, che anima e guida il comportamento umano. Per Jung, infatti, il fine che la vita psichica di ciascuno persegue è la realizzazione del Sé, resa possibile da una dinamica della personalità orientata verso un perfetto, anche se precario, equilibrio di forze. Lo scopo per cui lotta ogni uomo va individuato nell’autoattualizzazione. Quest’ultima consiste nella piena differenziazione e, al contempo, nella armonica fusione di tutti i vari aspetti della personalità di un uomo9.
Secondo la psicologia junghiana (principio di entropia) l’unilaterale sviluppo di specifici aspetti della personalità individuale crea inevitabilmente conflitti e tensioni, mentre al contrario un armonico sviluppo di tutte le diverse componenti è in grado di produrre equilibrio e benessere, benché sia l’uno che l’altro siano sempre destinati a rimanere precari. Il percorso evolutivo, che caratterizza la vita di ogni individuo, consiste nel transitare da una totalità originaria ad una unità il più possibile armonica e stabile, punto culminante del suo processo di autorealizzazione.
Pur muovendosi all’interno di un orizzonte di ricerca molto diverso da quello di Adler e di Jung, anche Goldstein coglie nell’autorealizzazione il movente principale del comportamento individuale. I diversi impulsi espressi dall’organismo umano, dalla fame al sesso, dalla curiosità al successo, sono da lui considerati come molteplici manifestazioni di un’unica tensione che mira a conseguire la realizzazione di sè.
L’organismo umano consegue la realizzazione di sé nella misura in cui riesce ad appagare ogni suo bisogno, ad attuare ogni sua potenzialità, ad assecondare la sua naturale creatività. Nell’organismo sano quella dell’autorealizzazione è una tendenza che, comunque, agisce dal di dentro ed è in grado di superare ogni conflitto col mondo esterno grazie alla “gioia della conquista”10. La teoria organismica di Goldstein, che presenta molti punti di contatto con le idee di Rousseau, esercita una grande influenza sulla psicologia americana ad orientamento non analitico e in particolare sulla psicologia umanistica11.
Sotto l’influsso della cultura liberale americana e dei suoi ideali, la psicologia umanistica condivide con Freud la concezione che la sofferenza mentale sia legata alla inibizione dell’individuo da parte della società. Ma, a differenza dello psicoanalista viennese, concepisce la psicoterapia non come un percorso di adattamento alla realtà, quanto piuttosto come un sostegno incondizionato all’affermazione della personalità individuale e alla piena espressione delle sue potenzialità creative. L’individuo, in questa prospettiva, va soprattutto aiutato a prendere consapevolezza del proprio potenziale umano e ad asserirlo nei confronti della realtà, della società, dell’altro. Da questo processo di asserzione individuale passa la salute mentale e la realizzazione di sé.
3. La realizzazione di sé nella psicologia del secondo dopoguerra
Negli anni cinquanta, dopo il triste periodo della seconda guerra mondiale, sarà soprattutto Maslow a riproporre con grande enfasi il tema dell’autorealizzazione, facendolo diventare uno dei cardini concettuali della “psicologia umanistica”. Quasi ripercorrendo le orme di Rousseau, Maslow è mosso dalla convinzione che l’uomo sia buono per natura e che diventi malvagio, infelice o nevrotico a causa di un cattivo ambiente sociale. Sulla base di una tale convinzione, egli sostiene che è psicopatologico tutto ciò che disturba o inibisce il corso dell’autoattualizzazione; mentre, al contrario, è psicoterapeutico ogni mezzo che aiuta a riportare l’uomo sul cammino dell’autoattualizzazione, secondo le linee di sviluppo suggerite dalla sua intima natura che, pur essendo molto debole e facilmente sommersa dalle pressioni culturali, rimane sempre presente e attiva12.
Maslow ravvisa nell’ideale dell’autorealizzazione il criterio psicodinamico più significativo della motivazione umana. Lo psicologo americano, infatti, riconosce nella volontà di significato il carattere di motivazione primaria, ma la colloca tra i bisogni superiori dell’uomo, per realizzare i quali “il soddisfacimento dei bisogni inferiori è condizione necessaria”.
Viktor Frankl, il fondatore dell’approccio logoterapeutico, contrappone a questa tesi di Maslow due importanti esperienze. La prima esperienza, a carattere autobiografico, riguarda la vita nei campi di concentramento nazisti. In questo contesto alienante e disumano i più elementari bisogni di vita venivano quotidianamente negati; eppure le discussioni filosofiche nascevano con frequenza, soprattutto quando le cose volgevano al peggio.
La seconda esperienza, in uno scenario assai diverso dai campi di concentramento, riguarda il mondo occidentale; dove il consumismo, se da una parte ha permesso il soddisfacimento dei bisogni primari sino allo spreco, dall’altra non ha saputo far fronte alla sempre più struggente domanda di significato dell’uomo contemporaneo.
Queste due esperienze, solo in apparenza contraddittorie, dimostrano in realtà come sia eccessivamente semplicistico ridurre la realizzazione di sé col successo o con il soddisfacimento dei bisogni di base. Per lo psicologo austriaco, infatti, la pienezza di sé potrebbe darsi in situazioni di estremo fallimento; mentre il vissuto dell’insoddisfazione si potrebbe registrare nel pieno di un successo. A motivo di ciò e contrariamente al pensiero di Maslow, la volontà di significato “rappresenta una motivazione sui generis non riconducibile ad altri bisogni né da essi derivabili”13.
Frankl fa notare il rischio insito nella prospettiva della sola autorealizzazione come criterio esaustivo di una teoria motivazionale. Egli spiega meglio il suo punto di vista attraverso quello che definisce “l’effetto boomerang”. Come quest’arma ritorna al punto di partenza quando fallisce il bersaglio; allo stesso modo, l’uomo che mira soltanto alla propria autorealizzazione rischia di perdersi nei possibili momenti di fallimento. Invece, la capacità di autotrascendenza rimane presente nella persona anche nei momenti di insuccesso.
Come definisce Frankl l’autotrascendenza? L’autotrascendenza trova la sua spiegazione logoterapeutica nel classico esempio dell’occhio. L’occhio normale non vede se stesso; quando lo fa è segno della presenza di qualche malattia, una cataratta o un glaucoma. La stessa cosa vale per un essere umano: “autotrascendenza significa che l’uomo diviene completamente se stesso ed è completamente uomo proprio nella misura in cui trasura e dimentica se stesso, si lascia alle spalle; nel servizio di una causa, nell’attuazione di un senso, nella dedizione a un compito o a un’altra persona”14. Frankl ha chiamato questa teoria “autocomprensione ontologica preriflessiva”.
Le conseguenze per la prassi psicoterapeutica sono evidenti: l’autoriflessione retrospettiva o introspettiva, tipica della psicoterapia, porta a comprendere l’azione partendo dall’osservazione, “in terza persona”; ed è paradossale che queste cure aprano la possibilità di una nevrosi iatrogena di auto-osservazione iper-riflessiva. La logoterapia, invece, propone la tecnica della dereflessione, attraverso la quale il terapeuta richiama ad un orizzonte di valore al di fuori dell’elemento che iperriflette su di sé.
Ciò grazie all’esistenza nell’uomo (ex-sistere) dell’auto-distanziamento, che lo rende capace di uscire dalla propria condizione psicofisica. In tal modo la logoterapia evita il pericolo iatrogeno con una proposta che vanta uno speciale equilibrio: la realizzazione di sé occupa un posto importante nella vita e deve essere perseguita con serietà, ma deve essere guidata maggiormente dalla propria autotrascendenza, superando una esagerata autoriflessione motivata dall’autosoddisfazione. A tale riguardo afferma Frankl: “… l’autorealizzazione è l’effetto non intenzionale dell’intenzionalità di vita”15
Negli stessi anni del secondo dopoguerra, Rogers afferma che l’unica forza motivante, l’unica tendenza fondamentale dell’organismo è “quella di attualizzare, mantenere ed esaltare l’organismo esperimentante”16. L’autoattualizzazione dell’individuo consiste in una innata protensione dell’organismo umano ad accrescersi in modo creativo, ad espandersi seguendo linee tracciate anche da fattori ereditari. In questo salutare processo di mantenimento e di espressione di sé, l’organismo è sostenuto e orientato dalle emozioni. La piena consapevolezza di esse non costituisce un elemento nocivo della vita psichica, ma al contrario aiuta l’individuo nella sua autodeterminazione, nel suo comportamento di ricerca e di raggiungimento dello scopo.
Perls, a sua volta, pone un nesso significativo fra la possibilità di realizzare se stessi e l’importanza del processo di autoregolazione. Il benessere mentale di un organismo umano può essere positivamente favorito o fortemente inibito nella misura in cui venga sostenuta oppure contrastata l’autoregolazione organismica, che in sé è “buona”, non è “antisociale”, né distruttiva. Se l’adattamento nevrotico alla realtà si caratterizza per un esasperato controllo sulla spontaneità dell’organismo, l’adattamento sano e creativo si contraddistingue, invece, per l’equilibrio che costantemente viene ripristinato dall’autoregolazione17.
Il periodo che intercorre fra gli anni ’50 e gli anni ’70 si delinea, dunque, come un passaggio nodale in cui la psicologia appare profondamente segnata da un senso, quasi totale, di fiducia nell’uomo, nell’integrità olistica del suo organismo, nella sua corporeità, nel flusso delle sue emozioni, nella valorizzazione della sua esperienza individuale e della sua consapevolezza soggettiva. E’ soprattutto a partire dagli anni settanta, però, che una tale “euforia” verso l’uomoindividuo, verso un modello antropologico fondato esclusivamente sull’autonomia e sull’autodeterminazione inizia a divenire lentamente oggetto di ripensamento e di revisione.
Fino a che punto i percorsi dell’autorealizzazione, che spingono l’individuo verso l’estrema autonomia e alla totale libertà da ogni vincolo esterno, non consegnano poi l’uomo al dramma della solitudine e dell’incomunicabilità? Fino a quale misura può avere ancora significato l’esercizio dell’autodeterminazione e dell’asserzione della propria unicità al di fuori di un contesto di appartenenza e di condivisione? In altri termini, quale senso può continuare ad avere l’espressione individuale fuori da un orizzonte relazionale?
Il disagio mentale dell’uomo contemporaneo è dovuto ancora ad una società che coarta e castra la sua naturale spontaneità o scaturisce piuttosto da un contesto sociale e culturale, come quello post-moderno, segnato dalla frammentazione, dal narcisismo esasperato, dall’assenza di legami solidi e di significative appartenenze? Come credere ancora che sia possibile realizzare se stessi a partire unicamente dalla propria soggettiva interiorità o ponendosi esclusivamente dalla prospettiva della propria autosufficiente individualità? Continua ad avere senso separare lo sviluppo psichico e la mente stessa di un individuo dal contesto relazionale che gli fa da sfondo?
Rispondendo a questi interrogativi, gli psicologi del nostro tempo hanno progressivamente finito per delineare un nuovo modello antropologico e una nuova concezione della mente, senza per questo disconoscere o disperdere la preziosa eredità di Freud, della psicologia umanistica e di altri contributi della psicologia moderna.
1 Cfr. L. Alici, F. Botturi, R. Mancini, Per una libertà responsabile, Messaggero, Padova 2000.
2 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1984.
3 Cfr. T. Hobbes, De Cive, Editori Riuniti, Roma 2005; Leviatano, Editori Riuniti, Roma 2005.
4 Cfr. J.J. Rousseau, Del Contratto sociale, Andò, Palermo 1952 ; La Nuova Eloisa, Rizzoli, Milano 1992.
5 N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. II, UTET, Torino 1969, p. 442.
6 Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, tr. it., Boringhieri, Torino 1978.
7 Cfr. A. Adler, Individual psychology, Clark Univ. Press, Worcester 1930.
8 A. Adler, Problems of neurosis, Kagan, London 1929, p. 150.
9 Cfr, C.G.Jung, Realtà dell’anima, tr. it., Boringhieri, Torino 1963.
10 Cfr. K. Goldstein, The organism, American Book, New York 1939.
11 Cfr. C.S. Hall, G. Lindzey, Teorie della personalità, tr. it., Boringhieri, Torino 1970.
12 Cfr. A.H. Maslow, Motivation and personality, Harper, New York 1954.
13 V. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, tr. it., EDC, Torino 1987, p. 16.
14 V. Frankl, F. Kreuzer, In principio era il senso, tr. it., Queriniana, Brescia 1995, p. 62.
15 V. Frankl, Senso e valori per l’esistenza, tr. it., Città Nuova, Roma 1994, p. 52. 16 C. Rogers, Cient-centered therapy; its current practice, implications and theory, Hughton, Boston 1951, p. 486. 17 Cfr. F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, tr. it., Astrolabio, Roma 1997.