di Simonetta Magari
1. Smarrimento e ricerca di sé
Per l’uomo contemporaneo non è certo agevole definire il senso di sé in un contesto culturale frammentato e in vorticoso cambiamento che sembra fortemente condizionarlo e inibirlo nella libertà. Egli si mostra smarrito, incapace di autonomia e di visione critica.
Fragile si rivela la sua capacità di reagire, dove egli manifesta maggiormente lo smarrimento più profondo è nella sua difficoltà a definire se stesso e il suo rapporto con l’altro. L’incomunicabilità lo isola, lo rende ancora più solo, lo costringe a cercare ossessivamente una sterile e inappagante “compagnia” nel rapporto con l’oggetto acquistato e subito “consumato”.
La cultura moderna aveva, per molti aspetti, “sacralizzato” l’uomo, liberandolo da tutti quei “lacci” che gli impedivano di essere pienamente “se stesso”. Ma oggi ci accorgiamo come una tale “sacralizzazione” abbia di fatto prodotto nell’uomo l’annichilimento, il narcisistico ripiegamento in sé, la dolorosa incapacità di cogliere tutta intera la complessità insita nella sua stessa esistenza.
Egli vive in un insieme sociale, che non lo contiene e non lo alimenta, perché non riesce più ad esprime una comunità.
La sua singola individualità stenta a divenire persona.
La sua è una “notte” non solo culturale, ma anche “psicologica”, fatta di angosce ,di dolori, di frustrazioni, di sofferenze, di vuoti.
Ciò che caratterizza il disagio psichico dell’uomo postmoderno sembra essere l’indicibilità della sua sofferenza. I “nuovi sintomi” emergono di continuo da esperienze che non è più possibile narrare, se non in modo parziale e superficiale.
Si tratta di una “incomunicabilità” che rende i nuovi disturbi mentali per molti aspetti impenetrabili.
L’esperienza soggettiva della sofferenza può essere vissuta come indicibile e può diventare indecifrabile, incomprensibile, quando non c’è nessuno che ascolta veramente quell’urlo o quel silenzio che strazia, che lacera il cuore, che non concede sosta. E’ l’inascoltabile perché difficilmente accettabile.>1
2. Spiritualità di comunione e ricerca del senso di sé
Una spiritualità - vista anche dalla prospettiva di uno studioso non credente o laico - nella misura in cui “interviene” nella vita di un uomo, orientandolo o modificando radicalmente i suoi stili di vita e le sue convinzioni, costituisce una realtà non trascurabile e di indubbio valore, non soltanto su un versante puramente antropologico, ma ancor più su un piano specificatamente class="Apple-style-span" style="font-size: 10px;"> >>>psicologico. Partendo da una tale premessa diventa, dunque, legittimo porci alcune domande. In che modo la spiritualità di comunione concepisce l’individuo e la sua realizzazione? Attraverso quali paradigmi concettuali essa può contribuire, in ambito psicologico, a sostenere l’uomo contemporaneo nella ricerca del “senso di sé”?
Per l’uomo di oggi, una delle espressioni più tipiche della difficoltà a raggiungere il senso di sé sembra essere la non accettazione del limite.
Il discorso del limite richiama subito Gesù Abbandonato
Per Chiara Gesù crocifisso e abbandonato, in quanto misura dell’”amore vero”, dell’estremo dono di sé, della completa e incondizionata assunzione del limite, è “l’antidoto alla disunità” fra gli uomini, è il farmaco che risana ogni dolore,che ricompone ogni separazione, ogni conflitto.
Chiara, dunque, individua nel limite della condizione umana, un limite a forte valenza psicologica (dolori, vuoti, fallimenti, tristezze), l’ostacolo più rilevante alla realizzazione di sé nella comunione con l’altro. Ma indica nell’assunzione di tale limite la possibilità del suo superamento e ciò sull’esempio dell’uomo nuovo, di Gesù crocifisso e abbandonato. L’intuizione che l’assunzione del limite sia la porta d’accesso al suo stesso superamento non è del tutto estranea alla psicologia dello scorso secolo. “Il grido dell’abbandono che sale senza ottenere risposta udibile, –secondo F. Dolto2 – diviene il modello della parola d’amore e di desiderio ai limiti dell’”articolare”, ai limiti del suono. (…) questo grido è allora una invocazione all’intervento, al soccorso di un altro”. A partire da questo momento estremo, dove tutto parla di fallimento, di disfacimento fisico e psichico, un grido così inatteso e misterioso diventa lo svelamento dell’essenza più profonda dell’essere umano: l’essere in se stesso relazione e fatto relazione da un Altro. Al gridare – afferma E. Severino3- sono legati gli aspetti decisivi dell’esistenza umana. E’ tipico dell’uomo il raccogliersi intorno al proprio grido come per riannodare la trama dell’esistenza.
3. Autorealizzazione e assunzione del limite
A giudizio di Freud, come è noto, la salute mentale di un individuo è fortemente legata alla sua capacità di aderire alla “realtà”. Lo sviluppo psicologico del bambino sarà fortemente determinato dalla sua capacità di accettare i limiti e le norme posti dal padre, quali argini alla relazione affettiva con la madre. L’adesione al principio di realtà si delinea così come il passaggio nodale verso una adeguata evoluzione dei rapporti interpersonali e verso un maturo equilibrio psichico.
L’adesione alla “realtà”, come criterio di maturità psichica, anima anche l’approccio “iconoclastico” alla religione da parte di Freud4. Egli sostiene che l’uomo proietta su Dio un suo radicato desiderio di onnipotenza, che però viene sistematicamente frustrato e contraddetto dall’incontro con il “reale”. In questo modo l’illusione di un Dio onnipotente permette all’uomo di >>compensare la frustrazione causata dalla propria ineliminabile impotenza e lo consola nei confronti di una realtà che di continuo lo “limita”.
Questa distruzione dell’immagine di Dio, questo atteggiamento volutamente “iconoclastico”, ostentato dalla psicoanalisi, più che un attacco irriverente alla religione, può essere recuperato come un legittimo tentativo laico di “purificarla” da qualsiasi tentazione idolatrica5. Il richiamo di Freud alla “realtà”, all’assunzione senza false illusioni della propria intera umanità, all’accettazione disincantata di una vita “limitata”, costituisce una condizione ineliminabile per il raggiungimento non solo della maturità psichica, ma paradossalmente anche di quella religiosa.
La convinzione, secondo cui l’assunzione del limite rappresenti l’elemento costitutivo dell’equilibrio psichico è fortemente presente in Jung.
L’esperienza del limite vissuto e accettato per amore, è considerato da Jung il “simbolo” per eccellenza6. Egli finisce col sostenere che, anche sul piano psicologico, l’accettazione del limite non è manifestazione di passiva e masochistica acquiescenza, ma al contrario di una grande forza e dignità, capaci di porre “oltre” il limite chi è da esso schiacciato.
Il coraggio di esporsi alla sconfitta e la determinazione di accettare e “attraversare” il limite si delineano così come atteggiamenti che fondano la salute mentale di un individuo. Viceversa, il rifiuto della sconfitta e la non assunzione del limite rimandano ad una personalità psicologicamente disturbata. Ad esprimere con chiarezza tale convinzione è Rank. Egli, infatti, sostiene che il nevrotico è colui che non riesce ad assimilare lo scacco della morte, la ferita della sconfitta, la frustrazione del fallimento. Sicchè il suo ossessivo controllo sulla realtà e la sua spasmodica ricerca di sicurezza gli impediscono di essere autenticamente creativo e di concepire la vita come un incessante “adattamento creativo”7.
Perls, seguendo le orme di Rank, afferma che l’esperienza della sofferenza costituisce un passaggio insopprimibile di ogni processo di crescita. In conseguenza di ciò, l’atteggiamento mentale di “apertura” e perfino di “abbandono” verso il dolore promuove la crescita e un rapido superamento del dolore stesso. Al contrario, l’atteggiamento di “chiusura” e di “resistenza” verso la sofferenza blocca la crescita e alimenta i sintomi nevrotici8.
Anche per Frankl lo scacco, il fallimento, costituiscono situazioni concrete nelle quali l’individuo è “sfidato” dalla realtà, è spinto a “trascendersi”, ad andare “oltre”. Posto di fronte al proprio destino, l’uomo ha sempre qualcosa in suo potere. Egli ha, comunque, la possibilità di creare, di sperimentare scelte per lui inedite, di attivare energie e potenzialità sopite, di elaborare significati nuovi9, di mettere in moto la trasformazione della propria personalità, come asserisce May10.
Perfino il dover morire può essere, secondo Kubler-Ross, un estremo compito di sviluppo, l’ultimo banco di prova di fronte alla vita11.
Bruner sostiene che gli stessi limiti biologici imposti all’uomo dalla natura costituiscono un potente stimolo per l’invenzione, per la ricerca, per il progresso culturale. Colta da questo punto di vista, infatti, la cultura può essere intesa come una sorta di “protesi” mediante la quale gli essere umani sono in grado di superare o ridefinire i “limiti” imposti dalla loro natura. Se, dunque, la biologia rappresenta “il limite”, la cultura rappresenta il potere umano di trascendere tale limite. A motivo di ciò, Bruner invita a concentrare la nostra attenzione non tanto sui limiti biologici, quanto piuttosto sull’inventiva culturale dell’uomo che sa porsi “oltre”12.
Se rimaniamo all’interno di un orizzonte psicologico monopersonale ed intrapsichico, il limite si manifesta all’uomo attraverso la sua condizione e la sua storia, attraverso ognuna di quelle esperienze che comportano per lui il rischio della frustrazione, della sconfitta, dello scacco. La mancata assunzione di questo limite produce il blocco evolutivo e la patologia psichica.
Se, superando la prospettiva monopersonale, ci poniamo in una dimensione psicologica relazionale, nella quale l’individuo si sperimenta come soggetto che co-costruisce rapporti con altri soggetti, allora il limite viene vissuto come difficoltà a “riconoscere” le differenze dell’altro e a “essere riconosciuto” da lui nella manifestazione della propria specifica identità. Gli studiosi della comunicazione umana, i teorici delle relazioni oggettuali e del sé, gli esponenti dell’approccio sistemico, i ricercatori che hanno analizzato la matrice intersoggettiva della mente, ci hanno insegnato, ciascuno con argomentazioni diverse, come la patologia psichica di un uomo tragga sempre origine da un angosciante “vuoto”: il mancato “riconoscimento” della propria identità, della propria specifica diversità, da parte di persone significative, del contesto relazionale che gli ha fatto da sfondo durante le tappe evolutive.
D’altra parte, il non essere stato riconosciuto dall’altro espone, a sua volta, l’individuo alla difficoltà di riconoscerlo, di “vederlo”, e ciò, come è evidente, costituisce un ulteriore elemento di sofferenza mentale, un’altra fonte di disadattamento e di conflittualità. Assumere il limite insito nella difficoltà, tutta relazionale, a riconoscere l’altro e ad essere da lui riconosciuto, significa sostenere l’altrui identità e alimentare la propria, equivale a rendere possibile la reciprocità relazionale, a costruire cioè la forma più “sana” di interazione umana.
La risposta insita nella dottrina di Chiara non si ferma qui, ma apre un nuovo orizzonte.
Sottolinea l’esistenza di una forma ancora più “evoluta” e complessa di vita relazionale: la comunione. Essa si basa su un modo “ulteriore” di vivere la reciprocità che potremmo definire reciprocità comunionale. Le caratteristiche psicologiche e le implicazioni emotivo-affettive della reciprocità comunionale sono significativamente diverse da quelle che connotano la più generica reciprocità relazionale.
Quest’ultima, infatti, si fonda sul reciproco riconoscimento dei partner relazionali, sulla interpretazione e sulla lettura l’uno della mente dell’altro, sull’empatia, sull’accettazione delle reciproche diversità, ma non implica necessariamente l’incondizionata accoglienza di ciò che dell’altro è “letto” e “interpretato” o la totale disponibilità a condividere quanto dell’altro viene “riconosciuto”. La reciprocità comunionale, invece, non solo implica il riconoscimento e l’accettazione vicendevole, ma presume la “totale” ospitalità dell’altro, la tensione alla comunione piena, la reciproca appartenenza, l’apertura alla completa condivisione, la radicale disposizione al dono gratuito di sé.
Nell’orizzonte psicologico che si apre attraverso la relazione di comunione il limite si manifesta non tanto, come prima, nel mancato “riconoscimento”, quanto piuttosto nella mancata “corrispondenza”. Su un implicito sfondo, costituito dalla reciproca e radicale disponibilità alla comunione, emerge la “non-corrispondenza” dell’altro alla mia apertura, si delinea il suo rifiuto a corrispondere, si manifesta la sua chiusura, il suo “sottrarsi”. L’intenzionalità e l’azione dell’altro si mostrano “non-scontate”, sfuggono alla dinamica della comunione. Io mi sperimento tragicamente esposto ad un nuovo limite, cioè alla frustrazione e alla solitudine che derivano dal non essere “corrisposto” nella medesima radicalità, nella mia stessa disposizione all’apertura comunionale.
L’assunzione del limite, in questo caso, si concretizza nel far dono di me all’altro, facendogli dono della mia attesa delusa, della mia aspettativa non corrisposta, di uno “sfondo” implicitamente condiviso, che però non è riuscito ad esplicitarsi. In definitiva, si tratta di fare dono gratuito di sé affinché l’altro emerga nei tempi, nelle modalità e nelle differenze attraverso cui si esprime la sua unicità, la sua identità individuale.
E’ evidente, del resto, che tale “non-corrispondenza” può inaspettatamente essere originata anche da me. Nonostante la mia iniziale disponibilità, la reciprocità comunionale può all’improvviso trovare in me stesso, nella mia demotivazione, nella mia chiusura, nel mio ripiegamento, il blocco psicologico che le impedisce di evolvere. Anche qui, tuttavia, l’assunzione del fallimento, che questa volta si origina in me, può subito costituire l’atteggiamento decisivo per riannodare nuovamente quella trama relazionale, possente e al tempo stesso, delicata, fragile, che è la comunione. L’assunzione del limite, che riguarda il rapporto con se stessi, produce la crescita personale e la capacità di adattarsi alla “realtà” della propria vita. L’assunzione del limite, che riguarda il rapporto con gli altri, dà luogo a relazioni mentalmente sane, capaci di alimentare e sostenere il sé di ciascun partner. Infine, l’assunzione del limite, che si manifesta nell’assenza di “corrispondenza”, rende possibile la reciprocità comunionale e, con essa, la più elevata forma di relazione fra gli uomini, la comunione, dove finalmente appartenenza e individuazione, unità e molteplicità, si integrano in tutta la loro pienezza.
Per realizzare una tale forma “evoluta” di relazione, però, occorre recuperare e ripercorrere le medesime dinamiche psicologiche di quell’uomo nuovo, di quell’uomo-comunione, che Cristo ha mostrato sulla croce e che ora attendono di essere compiutamente comprese dal sapere della psicologia. Svelato l’uomo-natura, scoperto l’uomo-relazione, la psicologia è chiamata a confrontarsi adesso con l’uomo-comunione, che realizza se stesso negandosi, facendosi dono gratuito per l’altro e rendendo così possibile quella relazione di comunione, da cui soltanto la famiglia umana può trovare speranza per il proprio futuro e forza per porsi oltre quella densa oscurità che oggi l’avvolge e ostacola il suo cammino.
4. L’incontro con l’altro nella spiritualità di comunione
Ma di quale comunione stiamo parlando? Non certo di una comunione che risulta da un insieme anarchico di irriducibili individualità, le quali di fatto sfuggono ad una esperienza di reale “appartenenza”. Né tanto meno di una comunione che non riconosce dignità all’individuazione e che assorbe l’io nel “noi”, sacrificando l’individualità sino a disconoscerla del tutto.
Piuttosto vogliamo riferirci ad una comunione “diversa”, dove individuazione e appartenenza non si contrappongono, ma si integrano pienamente; dove ciascuno esprime la propria identità non negando l’altro, ma aprendosi all’incontro con lui; dove l’appartenenza non mortifica la diversità, ma la riconosce e l’accoglie nel suo multiforme dispiegarsi.
Nella spiritualità di comunione la mia individualità raggiunge la sua pienezza e il suo compimento se è totalmente aperta all’altro. L’altro che incontro non è mai un “qualsiasi e generico” altro. Ogni singolo individuo, infatti, è sempre espressione di una parola, di una singola e originaria Idea, che l’Amore, ha avuto nel chiamarlo alla vita13.
Chiara sottolinea come Gesù, nell’abbandono estremo della croce, “staccandosi da Dio rimase uomo particolare (…), non cessando di essere Dio, divinizzò il particolare (…) e ciò dimostra come in un uomo particolare possa essere contenuto l’Universale”14.
In questo “inedito” modello antropologico, la singola identità non si afferma più imponendosi all’altro, negandogli la differenza o riducendolo a sé, mangiando i figli, come nel mito di Crono, o uccidendo il padre, come nel mito edipico tanto caro a Freud.
L’uomo nuovo, che si delinea e che fa compiere un decisivo salto evoluivo all’umanità, afferma se stesso nell’assoluto “darsi”, è “non-essendo” per l’altro, in una relazione con lui nella quale egli si fa “dono” gratuito e diventa termine di reciprocità. All’interno di una tale relazione, le differenze non emergono per contraddire l’altro, per competere con esso, ma per cooperare alla sua stessa edificazione. Ciascuna differenza è per l’altro e, a motivo di ciò, è continuamente trasformata in “dono”.
5. La reciprocità e il dono di sé
Una “speciale” forma di relazione, quindi, che abbiamo definito reciprocità comunionale. Essa si presenta essenzialmente come “edificazione reciproca”, come vicendevole dono delle proprie >>differenze. In questa “reciproca interconnessione” di doni, ciascuna identità realizza ed esprime se stessa senza per questo negare la comunione. Si profila, così, un paradigma relazionale nuovo, in virtù del quale possono coesistere e svilupparsi insieme personalità individuale e comunione.
In una relazione di reciprocità, intesa in questi termini, la centralità della comunione non elimina, né assume in sé, la centralità della personalità individuale. L’esperienza del “noi”, alla quale approda la reciprocità comunionale, non cancella, né assorbe al suo interno, la differenza e la distinzione attraverso le quali si esprime l’identità unica e irripetibile dell’io. Dischiudendosi all’altro, in un’apertura accogliente che si fa dono di sé, fino a non-essere-per-l’altro, l’io attraversa l’esperienza del noi per poi riappropriarsi di una identità più arricchita, qualitativamente diversa da prima, “individuata” in maggior misura, in quanto capace di coniugare l’affermazione piena di sé con la donazione di sé.
Sottolineando con estrema convinzione il non trascurabile valore psicologico di questa nuova dinamica relazionale che unisce l’io all’altro, Chiara Lubich afferma: ”il mio amore non soltanto conferma lui nell’essere distinto da me, uguale a me, trascendente come me, ma ‘fa essere me’. Solo l’amore rende conto della diversità (o distinzione) salvando l’uguaglianza e rendendo così possibile l’unità”15.
La spiritualità di comunione concepisce un uomo che delinea la propria identità e la riveste di senso nella misura in cui fa dono di sé all’altro e con lui si impegna in un movimento di reciproco “riconoscimento”. La reciprocità di cui stiamo parlando non si fonda sullo scambio del dare e dell’avere, non è neppure la reciprocità dell’amicizia, che non sa aprirsi al “non-amico”.
E’ piuttosto una reciprocità che coinvolge “ogni” altro e che è gratuita, non attende cioè restituzione o ricompensa, è “incondizionale. E’ una reciprocità che accoglie per intero la fragilità della relazione e la debolezza dei suoi protagonisti, trasformando tali limiti in ulteriori esperienze di donazione. La possibilità di donare, infatti, apre una duplice prospettiva di senso. Una riguarda la dinamica stessa della reciprocità, l’altra rimanda alla realizzazione individuale.
Il dono è reso possibile non solo dalla “diversità” dell’altro, ma anche dal suo limite, dal suo bisogno, dalla sua deficienza o mancanza. Non potrebbe esserci dono se non in risposta ad una qualche finitezza che l’altro presenta. Ecco, allora, che il limite non solo rende possibile il dono, ma diventa anche un aspetto saliente e indispensabile del reciproco relazionarsi. In molteplici modi abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo bisogno di “qualcosa” che non possediamo e che pure è necessario alla nostra vita per nutrirsi, per crescere, per assumere forma.
Questo “qualcosa” ci rimanda continuamente alla nostra finitezza, è il marchio inequivocabile della nostra reciproca dipendenza, della nostra comune dipendenza dal dono che ci proviene dall’altro.
L’altra prospettiva-condivisa da diversi autori tra cui Fromm, Nuttin e Frankl a cui, poi, ci riconduce il dono è quella della realizzazione individuale. L’autentico dono si contraddistingue >>sempre per il fatto che il donatore perde definitivamente ciò che liberamente ha donato. Nel dono, infatti, ciò che viene “sacrificato” è soprattutto l’intenzione del ricambio, la rivendicazione di quanto mi appartiene, di quanto è “parte” di me e a cui rinuncio in modo definitivo per farne dono all’altro. Questo “sacrificio” di sé, della propria intenzione di ricompensa, non va considerato come una sottrazione, né come una “diminuzione” di sé, ma al contrario come l’esperienza del pieno “possesso” di sé, come afferma Jung16.
Ognuno, infatti, non può donare ciò che non possiede. Sicchè nel dono, paradossalmente, sperimento il possesso di me, di ciò che in effetti sono, delle risorse, delle capacità che di me fanno parte e che mi costituiscono nella mia singolare individualità. Il donare all’altro, così, svela me a me stesso, permette di conoscermi, di sperimentare ciò che realmente sono, di trasformare in realtà tangibile ciò che solo potenzialmente era racchiuso in me. In accordo con Cola si potrebbe affermare che il dono e la “perdita di me”, inaspettatamente, mi fanno essere ciò che non sapevo di essere e in tal modo mi fanno “realizzare”, mi fanno esprimere come presenza unica e irripetibile17.
Chiara Lubich, a questo proposito, afferma che “io sono massimamente persona quando liberamente e coscientemente affermo l’altro anche a costo della mia vita (…). In altri termini: nessuno è così Io, così persona, come colui che per salvare la trascendenza dell’altro trascende se stesso negandosi (…). E’ questo il più autentico ‘umanesimo’ che si possa concepire e raggiungere”18.
L’umanesimo di cui parla Chiara Lubich non solo introduce un orizzonte di intensa luminosità nella “notte oscura” della cultura occidentale, ma ci lascia intuire come, al di là delle tante derive della postmodernità, la psicologia contemporanea stia per molti versi già “incubando” questo “nuovo umanesimo”. Si tratta di una “incubazione” che è possibile intravedere, benchè ad uno stato ancora incipiente, soprattutto attraverso quei filoni di ricerca che indicano nella relazione con l’altro, nell’esperienza di riconoscere e di essere riconosciuto, nella dinamica della reciprocità alcuni dei principali tratti salienti e costitutivi della vita mentale di ogni singolo individuo.
6. Psicologia e comunione
Dopo che l’umanesimo rinascimentale aveva esaltato l’uomo fino a porlo al centro dell’universo, dopo che l’illuminismo aveva magnificato la ragione umana sino al punto da considerarla una “dea”, Freud ha avuto il grande merito di ricordare all’uomo di essere “soltanto” un uomo, ponendolo di fronte ai disagi prodotti dalla civiltà, mettendo a fuoco le sue stesse irrazionalità e le molteplici interferenze di una natura che, a sua insaputa, lo limita e lo orienta.
Non meno importante è risultato il contributo, offerto in questa direzione, dal comportamentismo e dal cognitivismo, che hanno saputo sottolineare con efficaciacondizionamenti subiti dalla mente umana nei suoi processi di apprendimento e nell’elaborazione dei suoi modelli di conoscenza. All’indomani del secondo conflitto mondiale, quando l’uomo appare in tutta evidenza profondamente offeso nella sua dignità e prostrato nella fiducia in sé, la psicologia umanistica fa memoria del fatto che l’umanità ha da sempre un potenziale creativo e adattivo in grado di restituirle la speranza in una società migliore.
Nell’epoca della postmodernità, quando l’individuo si ripiega narcisisticamente in se stesso e diventa “orfano” dell’altro, la psicologia dell’ultimo novecento asserisce, con rara univocità, che la mente è relazionale e che il rapporto con l’altro fonda e dà senso all’identità psichica di ogni individuo19. Non solo la mente è relazionale, ma la sua relazionalità si nutre costantemente di una dinamica fatta di reciprocità. Ogni mente sussiste e si organizza nella misura in cui stabilisce contatti intersoggettivi, attiva la “lettura” di altre menti, sperimenta l’”interpretazione” di altre menti in una dinamica relazionale di reciprocità20.
Negli ultimi anni le neuroscienze hanno dimostrato come il nostro sistema nervoso sia costruito per potersi “agganciare” a quello degli altri esseri umani, tanto da poter fare esperienza degli altri “come se” ci trovassimo nella loro stessa pelle21. La vita mentale di ciascun individuo umano è frutto di una “matrice intersoggettiva”, cioè di una costante co-creazione, di un continuo dialogo con le menti degli altri22.
All’inizio del nuovo millennio, possiamo affermare con certezza che il “centro di gravità” della psicologia si è spostato dall’intrapsichico all’intersoggettivo. La matrice intersoggettiva, la reciproca interazione della nostra mente con la mente degli altri, si rivela fondamentale, indispensabile. Tale matrice è presente sin dalla nascita nella psiche di ogni individuo, ciò viene messo in evidenza da Stern nei suoi studi sui neonati. Braten ipotizza che essonasce con un altro virtuale nella menta. Possiamo quindi dedurre che la prima relazionalità è all’interno dell’individuo.
La matrice intersoggettiva sta alla nostra vita mentale come l’ossigeno ai nostri polmoni. Noi respiriamo l’ossigeno senza essere consapevoli, senza renderci conto che in mancanza di esso cesseremmo subito di esistere.
Tuttavia, la reciprocità su cui si fonda la matrice intersoggettiva della mente non costituisce un orizzonte “ultimo”, sufficiente a contenere la complessità e le potenzialità dell’individuo umano.La sfida che oggi attende la psicologia consiste forse non solo nel cogliere e teorizzare, come ha già fatto, la reciprocità da cui nasce l’intersoggettività, il riconoscimento dell’altro, la lettura e l’interpretazione delle menti, ma anche quella particolare forma di reciprocità, ancora del tutto inesplorata, che rende possibile la comunione fra gli individui e che si radica sul dono di sé, sulla gratuità, sull’accoglienza senza condizioni.
La sfida, in altri termini, consiste non solo nel reinterpretare e ridefinire la realtà individuale e intrapsichica, non solo nell’approfondire ed esplicitare ulteriormente la prospettiva relazionale e intersoggettiva, ma soprattutto nell’orientare con maggiore decisione la ricerca psicologica sia verso quella forma più “elevata” di relazione umana che è la comunione, sia verso quella speciale forma di reciprocità che la rende possibile e che abbiamo prima chiamato reciprocità comunionale.
Quali sono gli atteggiamenti mentali che rendono possibile la comunione e quali le chiavi di lettura psicologiche che ci permettono di comprenderli in modo adeguato? Quali elementi psicologici caratterizzano la reciprocità comunionale? Quella della comunione può essere considerata, sul piano psicologico, la più elevata espressione della realizzazione individuale? Ma, soprattutto, quali sono i blocchi emotivi e gli elementi conflittuali che si oppongono alla comunione fra gli individui umani?
Aprendosi al confronto con questi interrogativi, la psicologia può trovare una “sponda di riferimento” non trascurabile nella spiritualità di comunione. Da essa possono emergere delle indicazioni preziose e decisive per “orientare” la ricerca prima auspicata. La spiritualità di Chiara, in particolare, pone in luce l’esistenza di un forte nesso fra comunione e assunzione del limite, fra comunione e donazione disinteressata di sé.
1 Cfr. K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo,Astrolabio, Roma 1950
2 Cfr. La psicanalisi del Vangelo, Rizzoli 1978
3 E. Severino, Il grido, in Il parricidio mancato, Adelphi 1985
4 Cfr. M. Aletti,Psicologia, psicoanalisi e religione, op. cit.; P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1965.
5 Cfr. S. Freud, Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister, op. cit.
6 Cfr. S. Cola, Morte e resurrezione, op. cit.
7 Cfr. E. Becker, Il rifiuto della morte, tr. it., Paoline, Roma 1982.
8 Cfr. F.S. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, tr. it., Astrolabio, Roma
1971.
9 Cfr. V.E. Frankl, Alla ricerca di un significato della vita, tr. it., Mursia, Milano 1990>.
10 Cfr. R.May,L’arte del counselling, Astrolabio, Roma 1991
11 Cfr. Kubler-Ross, La morte e il morire, cittadella, Assisi (Pg) 1976
12 Cfr. J. Bruner, La ricerca di significato. Per una psicologia culturale, op. cit.
13 Cfr. H. Blaumeiser, “All’infinito verso la disunità“. Considerazioni sull’inferno alla luce del pensiero di Chiara Lubich, in “Nuova Umanità”, 1997, 113, pp. 543-570>>.
14 C. Lubich, testo inedito del 1949 citato in S. Cola, Morte e resurrezione: la dinamica del “saper perdere” per lo
sviluppo integrale della persona>, in “Nuova Umanità”, 2001, 134, p.235>.
15 C. Lubich, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Lettere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, in “Nuova Umanità”, 1999, 122, p. 186.
16 Cfr. C.G. Jung, Il simbolismo della Messa, Boringhieri, Torino 1979.
17 Cfr. S. Cola, Morte e resurrezione, op. cit.
18 C. Lubich, Lezione per la laurea Honoris Causa in “Lettere” (Psicologia). Malta 26 febbraio 1999, op. cit., p. 187.
19 Cfr. S.A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2002; D.J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, tr. it., Raffaello Cortina, Milano
2001.
20 Cfr. D.N. Stern, Il momento presente, op. cit.
21 Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.>22 Cfr. J. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1999; D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1998.