Nell’ambiente di lavoro gli individui non sono motivati solo dalla difesa degli interessi personali e il lavoro non è il contesto in cui si manifestano eventi e processi negativi (come incidenti e infortuni, stress, pressione temporale, ansia, potere e controllo, ricerca del benessere individuale, ecc.), molto spesso oggetto di indagine psicologica.
“Per quanto riguarda la carità verso il prossimo, ad esempio, ha istillato in noi una parola: farsi uno, oppure e ciò è in certo modo sinonimo, far il vuoto. …
Per “farsi uno” è necessario essere longanimi, che etimologicamente significa: privi di ogni impazienza. Quando ci si fa
uno, si vuole sicuramente il bene. Da quest’atteggiamento è ben lungi l’invidia. ... Quando ci si fa uno non ci si irrita,
perché occorre molta calma; non si pensa al male, poiché ci si fa uno proprio sperando nell’altro il trionfo del bene,
della giustizia, della verità. … Per “farci uno”, inoltre, non possiamo permetterci di pensare a risposte da dare o ad
azioni da fare mentre amiamo, ascoltando il prossimo. Dobbiamo anzi “fare il vuoto” completo di noi per addossarci
tutto quanto grava sull’altro, i suoi problemi, le sue necessità ….
Il “farsi uno”, ancora, facilita l’ansia all’amore universale verso tutti. Infatti, questo atteggiamento implica
necessariamente il taglio, il saper perdere le ansie che il fratello ci ha addossate, per farci uno col nuovo prossimo; …”
(Chiara Lubich, 1971)
Introduzione
Nell’ambiente di lavoro gli individui non sono motivati solo dalla difesa degli interessi personali e il lavoro
non è il contesto in cui si manifestano eventi e processi negativi (come incidenti e infortuni, stress,
pressione temporale, ansia, potere e controllo, ricerca del benessere individuale, ecc.), molto spesso
oggetto di indagine psicologica. L’ambiente di lavoro è il luogo in cui si perseguono motivazioni orientate al
prendersi cura dei bisogni e degli interessi degli altri, e in cui si verificano anche eventi e processi positivi.
Tra questi ultimi, molto studiati nel campo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, troviamo il
supporto sociale che colleghi e superiori possono fornire ai lavoratori (Rhoades e Eisenberger, 2002)
l’engagement, inteso come il processo motivazionale secondo cui i lavoratori sperimentano il loro lavoro
come stimolante ed energetico, come una attività significativa e come qualcosa su cui concentrano le loro
energie cognitive ed emozionali (Bakker et al., 2008); la leadership trasformazionale. In questo contributo ci
soffermeremo su alcuni studi, e in particolare sulla rassegna pubblicata da Parker, Atkins e Axtell nel 2008
sull’International Review of Industrial and Organizational Psychology. Mi sono imbattuto per caso in questo
lavoro, colpito dal fatto che nel titolo si faceva riferimento ad un processo fondamentale dell’interazione
umana, l’Individual Perspective Taking, cioè il prendere in considerazione la prospettiva dell’altra persona,
ma con riferimento al contesto di lavoro. Mi sono venuti in mente alcuni scritti di Chiara Lubich, ma non ho
approfondito il tema fino a quando non ho avuto notizia di questo convegno. In altri termini, ho fatto
ricerche sugli effetti dell’engagement sulla creatività dei lavoratori, o sugli effetti del supporto sociale che i
lavoratori ricevono dai loro superiori o dai colleghi quando si confrontano con un cambiamento
organizzativo o con l’introduzione di nuove tecnologie nel loro lavoro, ma non ho fatto ricerche sul
perspective taking. Questo costrutto, sebbene non nuovo nella disciplina psicologica, ha tuttavia ricevuto
limitata attenzione nella psicologia del lavoro e delle organizzazioni e nel contesto organizzativo. Sappiamo
bene come considerare il punto di vista dell’altro sia una abilità specifica degli psicologi clinici, di insegnanti,
consulenti e altri professionisti che operano nell’aiuto agli altri; sappiamo anche come la capacità di riconoscere le emozioni degli altri si sviluppi abbastanza rapidamente nei bambini, eppure sappiamo poco
(in termini di studi e di riflessione) su come o su quanto spesso questo processo si manifesti nei luoghi di
lavoro. Sappiamo però bene, quasi sempre per esperienza diretta, cosa succede o può succedere quando
non si assume la prospettiva dell’altro: molto spesso malessere individuale ed organizzativo, infortuni,
perdita di controllo, ecc. sono il risultato di una limitata comprensione della necessità di informazione, skill,
strumenti, tempo, ecc. di cui colleghi, sottoposti, clienti o fornitori hanno bisogno. Lo stesso titolo del
lavoro di Parker, Atkins e Axtell (208) mette in luce questo aspetto: “Costruire luoghi di lavoro migliori” è
uno dei possibili esiti del prendere la prospettiva dell’altro.
Considerata la rilevanza e il numero di ore che la maggior parte delle persone adulte trascorre nei luoghi di
lavoro, voglio portare alla vostra attenzione e alla discussione di questo convegno, alcuni studi che
illustrano i fattori individuali e organizzativi che possono influenzare la presa di prospettiva dell’altro, e
alcuni degli esiti, o outcomes, a cui questa può condurre. Alcuni di questi esiti sono già noti; meno noti è
che tali effetti si verifichino anche nell’ambiente di lavoro, spesso presentato come un ambiente in cui
processi e relazioni interpersonali hanno caratteristiche diverse da quelle non lavorative.
Prendere la Prospettiva dell’altro nei Contesti di Lavoro
I contesti di lavoro sono costellati da uno straordinario numero di situazioni di interazione interpersonale:
un lavoratore chiede aiuto o informazioni ad un altro collega su come si può risolvere un problema; un capo
presenta un cambiamento organizzativo che coinvolge l’impresa o il reparto e mette in luce come questo
corrisponda ai bisogni e rifletta le richieste dei lavoratori; un lavoratore del servizio reclami, nel parlare con
un cliente abbastanza irritato, riesce a comprendere le ragioni importanti della sua lamentela; una
infermiera comprende bene la necessità di avere informazioni da parte di una malata e chiede ragguagli al
dottore per conto della paziente, a cui riferirà subito dopo. Sono alcune delle situai azoni in cui prendere la
prospettiva dell’altro (o perspective taking) spesso conduce non solo ad una prestazione efficace da parte
dei lavoratori e dell’organizzazione stessa, ma può contribuire a creare un clima positivo, in cui simili
comportamenti avranno più probabilità di ripetersi.
Parker, Atkins e Axtell (2008) definiscono l’attiva considerazione della prospettiva dell’altro nel modo
seguente: “l’attiva presa del punto di vista dell’altro si verifica quando un osservatore cerca di
comprendere, in modo non valutativo, i pensieri, i motivi, e/o i sentimenti di un bersaglio, così come il
perché essi pensano e/o sentono quelle emozioni in quel modo” (p. 151). Per semplicità espositiva, esse
chiamano ‘osservatore’, il lavoratore che entra in relazione con e cerca di conoscere la prospettiva di
un’altra persona, e ‘bersaglio’, quest’ultima persona. Alcune caratteristiche di questa definizione: 1) si
tratta di un processo intenzionale, finalizzato ad un obiettivo e non di un processo automatico o
subconscio; 2) è un processo attivo che richiede sforzo, e quindi risorse, per distanziarsi dal proprio punto
di vista e comprendere quello dell’altro. E’ richiesto un ridotto carico cognitivo, come anche la disponibilità
di risorse emotive e buone abilità comportamentali per porre domande e ascoltare in modo attivo; 3) è un
processo non-valutativo, che richiede di comprendere l’altro come è e di riconoscere come legittimo quello
che pensa e sente; 4) infine, e soprattutto, è un modo di agire non basato solamente su tratti, ma
influenzato da caratteristiche non disposizionali della persona (come l’umore o le emozioni) e da fattori
situazionali (ad es. ridotto carico cognitivo o bassa pressione temporale).
E’ interessante che le autrici distinguono anche l’attiva considerazione del punto di vista dell’altro
dall’efficacia del prendere tale prospettiva. Tale efficacia è definita come “il grado in cui l’osservatore ha
una relativamente accurata, comprensiva e oggettiva comprensione e apprezzamento dei pensieri e
sentimenti del bersaglio e delle ragioni del perché esso pensano e sentono in quel modo” (p. 152). E’ cioè
interessante che non è sufficiente lo sforzo di cercare di comprendere l’altro, in quanto tali sforzi possono
condurre ad una ridotta o limitata comprensione dell’altro.
Tra le conseguenze dell’attiva presa del punto di vista dell’altro le autrici evidenziano esiti intra-individuali,
esiti interpersonali ed esiti collettivi (a livello del gruppo o dell’organizzazione). Per quanto riguarda gli esiti
intra-individuali: il prendere in considerazione il punto di vista dell’altro conduce a prendere in
considerazione le emozioni sperimentate dal bersaglio, reazione detta di attenzione empatica; si osservano
risposte cognitive che sono meno influenzate dagli errori di attribuzione, come il bias attore-osservatore o il
self-serving bias, e forniscono attribuzioni più positive – questo è importante in processi organizzativi come
la valutazione delle prestazioni, la negoziazione o processi di leadership. Prendere la prospettiva del’altro
inoltre modifica la rappresentazione cognitiva dell’ “altro” in relazione al “se”, aumentando il senso di
‘unità’ (Cialdini et al., 1997). Infine, comprendere meglio l’altro può aumentare la significatività del compito
che viene svolto (ad esempio, la parrucchiera o l’operatore del servizio, non solo svolge il suo lavoro, ma
aiuta l’altra persona a stare meglio) e le ricerche hanno mostrato che questo aspetto aumenta la
soddisfazione verso il lavoro e la motivazione intrinseca.
Tra le conseguenze interpersonali dell’attiva presa del punto di vista dell’altro vi è l’accresciuta qualità e
significatività delle comunicazioni: vengono citate ricerche che mostrano che l’operatore che si sforza di
comprendere l’altro struttura il suo messaggio in modo semplice e chiaro, facilitando la comprensione da
parte di quest’ultimo, il quale a sua volta fornirà più informazioni; le abilità di soluzione dei problemi
interpersonali migliorano, cresce la fiducia e si abbassa l’aggressione interpersonale. In una parola le autrici
affermano che “è probabile che il perspective taking aumenti la prestazione di tutti i ruoli all’interno
dell’organizzazione che hanno una forte componente interpersonale” (p. 159). Un’altra conseguenza che si
rileva, confermata da molti esperimenti di psicologia sociale, è l’accresciuto comportamento di aiuto, che è
stato considerato come uno dei componenti chiave dei ‘comportamenti di cittadinanza organizzativa’
(Bateman e Organ, 1983) e del ‘comportamento organizzativo pro sociale’ (Brief e Motowidlo, 1986). Anche
la natura dei conflitti cambia, spostandosi da conflitto basato sulla persona ad un più gestibile conflitto sul
compito. Come molti studi di psicologia sociale hanno ampiamente mostrato, prendere la prospettiva
del’altro può essere un mezzo per ridurre il pregiudizio e lo stereotipo, riducendo la percezione di
dissimilarità e facilitando interazioni positive. In una serie di studi condotti con lavoratori e i loro supervisori
(si trattava di addetti alla sicurezza di una base militare e di lavoratori di un impianto di trattamento acque)
sulla relazione tra motivazione intrinseca e creatività, Grant e Berry (2011) hanno osservato che la
motivazione intrinseca era associata a livelli più elevati di creatività quando i lavoratori erano anche
motivati a prendere il punto di vista di altri. Più precisamente, essi hanno confermato l’effetto secondo cui
la motivazione intrinseca spinge i lavoratori a produrre molte idee nuove, tuttavia hanno verificato un
effetto congiunto secondo cui il considerare il punto di vista di altri (come colleghi, superiori, fornitori o
clienti) fornisce una specie di filtro che aiuta a stabilire quali idee siano quelle più utili per risolvere i
problemi di altri, per cui si sviluppavano solo quelle idee che avevano più probabilità di essere
implementate in quanto avrebbero condotto ad esiti utili per qualcuno.
Infine, tra gli esiti a livello aggregato, come nei gruppi di lavoro in cui è presente un alto livello di
interdipendenza, prendere la prospettiva dell’altro facilita la pianificazione, il coordinamento e la
distribuzione dei compiti in modo equo. Alcuni studio dei gruppi di lavoro hanno proposto la teoria dei
‘modelli mentali condivisi’ secondo cui i team per funzionare bene devono condividere informazioni o
modelli legati al compito, alle attrezzature, al funzionamento del gruppo e alle competenze di ogni singolo
membro (citaz.); tali modelli richiedono un coordinamento esplicito, che si raggiunge con la comunicazione
e la pianificazione, e un coordinamento implicito, in cui i membri anticipano i bisogni e le azioni dei colleghi,
e dinamicamente si adattano ad eventuali cambiamenti. Rico e colleghi (2007) hanno mostrato che il
prendere la prospettiva dell’altro è un importante aspetto del coordinamento implicito: gruppi di
controllori del traffico aereo riuscivano ad anticipare e a fornire il tipo di assistenza di cui un compagno
affaticato aveva bisogno per completare il compito, tanto più avevano una accurata comprensione delle
condizioni di carico di lavoro mentale dei colleghi. Tra gli effetti a livello organizzativo, si è osservato che
anche la collaborazione tra reparti viene facilitata se le persone sono in grado di apprezzare le conoscenze
distintive che ogni reparto apporta al funzionamento complessivo. Park e Raile (2010) hanno rilevato che a
livello di gruppo, quando gli insegnanti di asili nido coreani auto valutavano come elevate le loro capacità di
prendere il punto di vista dei colleghi, i livelli di soddisfazione per la comunicazione tra colleghi erano più
elevati.
Ovviamente non tutto è positivo nel prendere la prospettiva dell’altro, e sono stati messi in rilievo anche
dei limiti. Ad esempio, prendere la prospettiva dell’altro può avvenire a discapito della persona con cui si
interagisce, oppure può avvenire per avvantaggiare l’osservatore, colui che offre il supporto. I venditori
possono cercare di vendere prodotti di cui il consumatore non ha bisogno, o il dirigente potrebbe
manipolare i colleghi e usare la conoscenza delle loro necessità per suoi personali fini di carriera. In questi
casi, il contesto competitivo può indurre il comportamento egoistico dell’osservatore, mentre un contesto
collaborativo può incoraggiare il comprendere l’altro per fini collaborativi.
Altri aspetti meno positivi, o critici, del prendere la prospettiva dell’altro sono legati alla possibilità di
fornire più risorse ad una persona a sfavore del gruppo, o fornire un trattamento preferenziale per il
bersaglio contravvenendo ad altri valori come l’equità e la giustizia. In situazioni come la valutazione delle
prestazioni, l’avanzamento di carriera o l’erogazione di servizi ai cittadini, comprendere meglio una persona
(a sfavore di altri che non hanno avuto l’occasione di presentare le loro ragioni) è un potenziale aspetto
critico di cui tenere conto. A questo si collegano il rischio della perdita della obiettività da parte
dell’osservatore, o la possibilità che offrire occasioni di ascolto possa sollevare nel target l’aspettativa che le
sue ragioni saranno tenute in conto. Questi dubbi sono tipici dello psicologo clinico come dei manager o di
chi è in posizione di comando o supervisione di altri lavoratori.
Nonostante gli aspetti positivi, Parker, Atkins e Axtell (2008) si interrogano su come mai tenere in
considerazione la prospettiva dell’altro sia un comportamento che non viene messo in atto così di
frequente e propongono tre serie di fattori che possono facilitare od ostacolare tale comportamento: 1)
fattori che possono motivare i lavoratori a comprendere il punto di vista degli altri, 2) fattori che
influenzano la capacità dell’osservatore di prendere il punti di vista degli altri, e 3) fattori ambientali e
situazionali legati a tale attività. Li descriviamo di seguito brevemente. I fattori che possono influenzare la
motivazione a comprendere il punto di vista degli altri sono:
a) due tipi di credenze, la prima secondo cui comprendere gli altri contribuirà a raggiungere obiettivi
organizzativi o sarà comunque di beneficio alla situazione. Considerare la prospettiva di altri è tipico di
alcuni ruoli, come dirigenti o consulenti, mentre per altri ruoli può essere espressamente sottolineato come
un valore aggiunto. La seconda credenza richiede di impegnarsi in uno sforzo di comprensione senza tener
conto di eventuali conoscenze pregresse o senza la presunzione di conoscere già la prospettiva del’altro
perché questa è stata manifestata in passato oppure perché, sulla base di un “effetto del falso consenso”, si
presume di sapere cosa si sperimenta in una certa situazione perché la si è già sperimentata
personalmente. Un operatore che ha già trattato in passato con clienti arrabbiati, potrebbe presumere,
sulla base della sua esperienza, di sapere cosa i suoi colleghi provano nel gestire tali clienti e ritenere poco
importante ascoltare la loro esperienza. Sappiamo infatti bene come l’esperienza precedente sia una
preziosa (ma a volte fuorviante) guida per comprendere e spiegare eventi quotidiani;
b) assumere la prospettiva dell’altro è un processo che richiede di aprirsi ad altri punti di vista, e perciò
necessita di quella energia che può essere fornita dal disporre, oltre un certo livello, di interesse, di
emozioni positive o di humor, in quanto tali risorse emotive potranno essere utili nel caso si debbano
gestire informazioni negative;
c) fattori sociali che possono facilitare l’assunzione della prospettiva dell’altro sono la piacevolezza degli
altri, l’essere interessato a loro, il fatto di appartenere al medesimo in-group, una relazione di lunga durata
così come la possibilità di futuri ulteriori contatti con le altre persone. Anche la reciprocità è un fattore che
motiva a considerare il punto di vista dell’altro. I clienti che si sentivano ascoltati dagli agenti di call center,
tendevano a rispondere in maniera più cortese e piacevole a questi;
d) anche le modalità con cui sono strutturati i compiti possono favorire l’assunzione della prospettiva
dell’altro. Ad esempio, compiti in cui i risultati dipendano dalle prestazioni congiunte di più persone,
possono facilitare la motivazione a comprendere il punto di vista degli altri. La pressione temporale può
invece interferire con tale motivazione. Infine, più in generale, alcune pratiche organizzative che
potrebbero avere un impatto sull’incentivare i lavoratori a considerare la prospettiva degli altri (Baker e
Dutton, 2006) sono: selezionare le persone in base alle loro abilità relazionali, sostenere pratiche a favore
di buone relazioni, ricompensare sulla base delle abilità relazionali, usare incentivi di gruppo o usare
tecnologie collaborative. Va tuttavia notato che ci sono ancora poche ricerche sull’impatto di tali pratiche
sulla motivazione a comprendere l’altro. In una ricerca del 2001, su lavoratori di una fabbrica di lavorazione
del vetro, Parker e Axtell osservarono che più contatti i lavoratori avevano con i colleghi che svolgevano la
lavorazione prima di loro, tanto più questi facevano attribuzioni positive sul loro comportamento e
comprendevano le loro reazioni emotive; inoltre osservarono anche un legame indiretto, per cui avere
contatti con i colleghi, accresceva il senso di comprensione integrata dei vari aspetti che componevano il
processo di lavoro e il senso di essere interessati e responsabili del loro lavoro. Infine, anche il disporre di
un certo livello di autonomia nel lavoro, aumentava tale comprensione integrata e l’interesse nel proprio
lavoro, che a loro volta conducevano a maggiore probabilità di considerare il punto di vista dei colleghi. In
sintesi, il modo in cui il lavoro è organizzato può ostacolare o facilitare l’assunzione dei punti di vista degli
altri.
Essere motivati a comprendere l’altro è un fattore necessario per mettere in atto tale comportamento;
tuttavia perché tale comprensione sia accurata sono necessarie buone capacità da parte dell’osservatore e
una situazione favorevole. Tra le capacità dell’osservatore si segnalano una buona complessità cognitiva, consapevolezza emotiva e capacità di regolare le proprie emozioni. Essere a conoscenza della situazione,
delle procedure o delle richieste dei compiti dei colleghi, sono utili strategie, già proposte dai sostenitori dei
modelli mentali condivisi per rendere più agevole la comprensione dei vincoli dei colleghi del proprio
gruppo ma anche di quelli degli altri reparti. Anche la situazione emozionale dell’osservatore, il suo umore,
può influenzare la motivazione a coinvolgersi nell’ascolto di altri ma anche la sua capacità nel farlo bene.
Infine, la stessa situazione in cui i partner interagiscono può presentare condizioni che, indipendentemente
dagli sforzi dell’osservatore, possono facilitare o meno l’assunzione del punto di vista del’altro. Ad esempio,
il punto di vista dell’altro può essere meno accessibile se questo riguarda aspetti più difficili da comunicare
(ad esempio i valori rispetto ad un problema tecnico), oppure se l’altro ha bassa motivazione o una bassa
capacità di comunicare la sua prospettiva in un modo che non sia minaccioso per l’osservatore. Una
persona timida, o un lavoratore, per diverse ragioni potrebbero avere difficoltà a manifestare
completamente il loro punto di vista e quindi rendere meno facile interessarsi e comprendere il loro punto
di vista. Anche il mezzo di comunicazione, ad esempio una comunicazione faccia a faccia oppure via
telefono o internet, può influenzare la comprensione della prospettive del target. Fattori che possono
aumentare l’impegno e lo sforzo che una persona deve dedicare all’altro possono essere la complessità
della prospettiva o del problema, oppure il suo contenuto emotivo o morale.
La ricerca su questi temi è ancora poco diffusa e quindi altri studi sono necessari per valutare la validità e
fedeltà di questi studi. Ad esempio, il modello stesso di antecedenti ed effetti presentato da Parker e
colleghi (2008) è da testare nel suo complesso; Park e Raile (2010) hanno segnalato che le autovalutazioni
degli insegnanti sui loro comportamenti di ‘perspective taking’ non correlano con le valutazioni fatte dai
colleghi sugli stessi comportamenti; o, ancora, che le motivazioni a perseguire i propri interessi o quelli
degli altri siano due fattori indipendenti e correlati a caratteristiche individuali del lavoro rispetto a
caratteristiche di gruppo (De Dreu e Nauta, 2009). Nonostante ciò, riteniamo questa sia una interessante
prospettiva attraverso la quale esaminare molti dei processi e delle interazioni che si verificano nei luoghi di
lavoro tra colleghi, e tra lavoratori e persone esterne all’organizzazione, come fornitori, clienti o cittadini.
Alcune Considerazioni Finali
Alcune brevi considerazioni finali su quanto detto finora in relazione al tema di questo convegno.
1) Prendere la prospettiva dell’altro implica non solo una buona identità o una immagine positiva di sé. Tale
comportamento richiede infatti non solo complessità cognitiva, ma anche la capacità di decentrarsi da sé,
dal proprio stato affettivo per cercare di comprendere l’altro, e soprattutto la credenza che l’altro non sarà
una minaccia per sé, ma, come indicato da Parker et al. (2008) comprendere l’altro “contribuirà a
raggiungere obiettivi organizzativi o sarà comunque di beneficio alla situazione”. Nella spiritualità del
movimento dei focolari, si parla infatti di “conoscere la prospettiva dell’altro, chiunque esso sia: di genere,
età, o ruolo differente; della cittadina vicina con cui c’è un forte spirito campanilista, del partito differente,
della nazione differente, della razza diversa, e così via. Questo implica anche una considerazione positiva
dell’altro, chiunque esso sia.
2) Comprendere la prospettiva dell’altro implica anche Il donare qualcosa, di cui si parla nel titolo della
conferenza. Si tratta del dono di risorse molto preziose nelle organizzazioni moderne. Abbiamo detto che prestare attenzione richiede disponibilità di risorse tra cui tempo, le risorse cognitive necessarie per
prestare attenzione o quelle emotive per ascoltare in modo “non valutativo” (Parker et al. 2008) o per far
fronte e gestire le storie e le esperienze difficili che colleghi o clienti possono aver sperimentato.
3) La reciprocità: è risaputo che l’esperienza dell’ascolto produca maggiore esplorazione da parte di chi è
ascoltato, ma in questo lavoro abbiamo anche citato situazioni in cui l’essere stato ascoltato produce
reciprocità.
4) Come sostenuto da Parker e colleghi (2008) questo comportamento non dipende esclusivamente dai
tratti, ma anche da variabili non disposizionali o situazionali. Le organizzazioni possono promuovere,
incentivare o sostenere tali comportamenti, al proprio interno e verso l’esterno. La cultura organizzativa
spesso contiene indicazioni su come interagire con colleghi, sul livello di collaborazione che è atteso,
sull’attenzione alle esigenze del cliente. Le organizzazioni possono fare molto per contribuire, come dicono
Parker e colleghi, a “costruire e migliorare luoghi di lavoro grazie al prestare attenzione alla prospettiva
dell’altro”.