di Elisabeth Reichel
Lavorando in un reparto clinico di psichiatria, dalle situazioni che mi trovavo ad affrontare, mi è affiorata gradualmente una domanda. Incontrando poi un paziente schizofrenico che veniva seguito dalla nostra clinica da più di trent´anni, questa domanda è diventata molto insistente: Che vita è la sua? Che significato può avere una vita cosi? Rapporti con il mondo esterno ridotti a zero, piccoli piaceri cercati in una sigaretta, lo sport in TV e una grande incapacità di parlare a causa della sua malattia. Un giorno, osservandolo, ho visto la solennità con la quale puliva il tavolo, e mi sono resa conto in un attimo: ciò che conta è solo l´attimo presente, vissuto bene. E dopo: se la vita di quest´uomo avesse anche l´unico senso di aver dimostrato a qualche persona l´importanza del momento presente, sarebbe già una vita riuscita? Quale posto ha il dolore nella vita degli uomini?
Cosa può suscitare la sofferenza in un individuo? E infine, può una psicologia ispirata alla spiritualità di comunione dare un contributo ad affrontare la sofferenza? Prima di proporre una risposta, passo a classificare alcuni paradigmi psicologici dai quali sono scaturiti diversi modelli di funzionamento umano. Freud vedeva l´uomo come sistema chiuso di energie in cui la vita psichica, il pensare, il sentire sono flusso di energia che viene nutrito dalle pulsioni. Es, ego e superego sono le istanze per controllare le energie. Il grande merito di Freud fu la scoperta dell´inconscio e dei meccanismi di difesa. La sofferenza, le malattie ecc. sono viste come frutto di uno sviluppo nevrotico e di meccanismi di difesa poco maturi. La psicoanalisi dell´inconscio porta ad una maggiore consapevolezza, libertà e maturità. Le teorie attuali delle relazioni oggettuali vedono poi l´importanza delle relazioni primarie con la figura materna o paterna, con i significativi altri (ingl. the significant other, Harry Stack Sullivan) come pietra da costruzione per la struttura dell’ “io”, “es” e superio. Così, nella storia delle teorie analitiche, la relazione diventa sempre più importante per lo sviluppo del Sè. Nel paradigma delle teorie nettamente comportamentali l´uomo veniva considerato come frutto della sua storia di apprendimento. Era (è) opinione diffusa pensare l’uomo come black box, inaccessibile allo studio analitico ma osservabile nel comportamento, come conseguenza della interiorità e delle esperienze precedenti.(J.Locke Il neonato: una carta bianca.) Le particolarità individuali sono causate da diversi processi di apprendimento,. Per il modello della psicologia evolutiva il comportamento ed il vivere delle persone sono il risultato dell’evoluzione, cioè di un processo genetico millenario di adattamento degli esseri viventi alle circostanze ambientali. I modelli connettivi affermano che esperienze e comportamento si basano sull’integrazione delle informazioni che il sistema nervoso riesce a trasformare e ad organizzare attraverso uno specifico sviluppo neurologico (come un computer). I messaggi sia che provengano dall´esterno che dall´organismo stesso, sono processati in nuove informazioni dalla parte conscia e danno luogo a attività motorie e a comportamenti. Più questi modelli di elaborazione di informazione sono indirizzati in senso scientifico- neurologico, più danno spazio a processi inconsapevoli di elaborazione e a risultati inconsci di questi processi!!! Se per Freud la nuova problematica era il subconscio, per il modello connettivo la problematica centrale è il processo che lega la predominanza del sistema inconscio alla parte conscia. Come giungono alla coscienza un pensiero, la decisione finale, l´azione???
Il modello dinamico interattivo afferma che l’organizzazione del comportamento di un soggetto e l’organizzazione del suo ambiente sono costanti a medio termine, mentre individuo e ambiente possono variare a lungo termine. Inoltre i processi di variazione nell’uomo e nell’ambiente si influenzano reciprocamente. Lo sviluppo della personalità avviene nel contesto ambientale. Poco fa qualcuno ha coniato una frase: “Diventiamo attraverso il cervello dell´altro” per esprimere, che tutti i processi neuronali che costruiscono la parte concreta della nostra personalità vengono inviati ed eseguiti attraverso i nostri rapporti con gli altri. “Non abbiamo il nostro grande cervello, soprattutto quello frontale, per costruire ponti ancora migliori o per andare sulla luna e su tutti i pianeti, ma per poter vivere le moltitudini delle relazioni che possiamo avere, e per poter dare il nostro contributo.”
W. Kegan, un autore che tra l`altro si occupa di psicologia evolutiva, ha integrato le teorie di Piaget con le teorie dello sviluppo morale di Kohlberg. Egli scrive nel: “Entwicklungsstufen des Selbst” (Le fasi di sviluppo del Sé) che il primo compito di una creatura appena nata è quello di suscitare nella figura di riferimento l´attenzione e una risposta di amore. Nel neonato la grande capacità di suscitare attenzione, cioè di essere importante, di avere significato è per Kegan l’elemento fondamentale. “Il bambino che afferra (comprende) una cosa, fa qualcosa che farà in un certo modo per tutta la sua vita; riconoscere ed essere riconosciuto. Il processo più importante nell´uomo, da quel punto di vista, è il suscitare l´attenzione. Anche se siamo ben nutriti, tenuti caldi e sani, non possiamo sopravivere senza avere un significato.
Ernst Bloch, filosofo tedesco, autore delle utopie concrete e del principio della speranza, parla del “non ancora dell´essere” che è tipico del nostro “qui ed ora”. L´uomo non è arrivato a se stesso, sente la mancanza di un “non aversi ancora”. (Ich bin, aber ich habe mich nicht./Io sono, ma non mi possiedo ancora) Tutto l`essere però è circondato da un “campo di significato”, (Bedeutungsfeld), fatto da possibilità non ancora realizzate, che può portare alla trasformazione del “non avere ancora” in un “avere già”, ed il “non essere ancora” nell’“essere già”.
Secondo Bloch in ogni essere umano esiste un “sovrappiù” che trova la sua espressione nelle utopie sociali, economiche e religiose, quali fondamento di ogni società. Per lui, grande critico della religione, questa possibilità del sovrappiù è come un seme dentro la persona, un nucleo di divino che accenna al Divino.
Potremmo chiederci: cos’è, questo seme, questa capacità di sentire soggettiva, l’entrare subito in rapporto, il conoscere ed essere conosciuto, cos´è questo sovrappiù? Mi piace la definizione dell’uomo come messaggio, come parola, che solo lui e nessun altro può dare al mondo.
È la concezione antropologica di Chiara Lubich: Secondo lei ciascuno di noi è una parola di Dio, pronunciata dal Padre in un´unica Parola, che è il figlio, ed è questo il nostro vero essere.
Tutta la nostra vita consiste nell’attuare questa nostra realtà profonda: siamo chiamati a diventare sempre più quella parola nella Parola, ovvero quella Idea che il Padre ha avuto nel chiamarci alla vita. È solo cosi che ci realizzeremo veramente: andremo ad occupare quel posto che abbiamo sin dall´eternità nella Mente di Dio. (Hubertus Blaumeiser, NU 113 p.562)
Potremmo dire: il significato, il potenziale, il sovrappiù è iscritto nella DNA di ogni uomo, può sembrare un frammento, però esiste come seme ed è in grado a svilupparsi.
C´è adesso un paradosso: una parola esiste soltanto se viene udita, capita, appresa. Essere messaggio implica che devo essere per l´altro, non posso essere per me stesso,.altrimenti non sono. Il termine autorealizzazione allora è un controsenso, se è intesa in senso narcisistico. L’autorealizzazione autentica comporta il “darmi” (non essere) e, dandomi come parola, che sarà
sempre una parola d´amore, cresco, mi sviluppo e, suscitato dall’altro, divento più me stesso. Di nuovo cito Ernst Bloch : “Siamo ancora troppo vicini a noi stessi, perciò non ci abbiamo ancora. Dobbiamo staccarci da noi per trovarci.”
Dove trova la sua massima espressione il senso dell´uomo? Là dove l´uomo vive nella sofferenza e la sa vivere. Penso che oggi si sia d’accordo sull’idea che ogni sofferenza, ogni disgrazia, ogni crisi, considerata dal punto di vista psicologico, significhi anche chance, possibilità.
Nelle nostre terapie in caso di crisi citiamo spesso il fatto che nella lingua cinese le parole CRISI=DISGRAZIA e CHANCE vengono rappresentate con lo stesso segno. Questo corrisponde ad una radicata esperienza dell’uomo ed è confermata da diversi lavori.
È interessante notare come, nell’ambito della psicologia dell’uomo e del suo sviluppo, il dolore viene visto come segno di qualcosa che non funziona bene, di qualcosa da superare il più presto possibile e magari da eliminare. Questo però non corrisponde all’esperienza generale dell’uomo: ciò che fa soffrire appartiene alla vita di tutti i giorni, a partire dagli infiniti piccoli disagi, passando dalla disoccupazione, dalla povertà e dalla malattia, fino alla guerra, la morte, le catastrofi dell’umanità.
È stato, è e presumibilmente sempre sarà, parte della nostra vita.
Ogni esperienza dolorosa mi mette sempre in discussione, stravolge il concetto di me stesso e le sicurezze interiori che con più o meno fatica avevo acquisito. A seconda della causa, del temperamento e della struttura personale, la paura si trasforma in collera, ira oppure si scioglie in dolore fino a comportamenti depressivi o impulsivi. Ritorna la domanda iniziale sul significato e sul fine della mia esistenza, sul diritto del mio esistere nel mondo che mi circonda, nel mio piccolo o grande cosmo.
Attenendoci ai modelli di Caplan e Cullberg sulle crisi psicosociali, è noto che la perdita dell’equilibrio psichico umano può avvenire quando il soggetto viene messo a confronto con eventi che superano per qualità o misura le capacità e gli strumenti già provati in altre circostanze.
L’uomo viene di continuo messo a confronto con la sua fragilità e la sua limitatezza. L’interrogativo sul rapporto tra l’individuo e la condizione di sofferenza riemerge nonostante i tentativi di nascondere che il dolore è parte della vita umana.
La psicologia si pone questa domanda e, come scienza empirica, può partire dall’esperienza dell’individuo, esperienza che si può moltiplicare, evolvere e che si lascia descrivere da ipotesi.
Una corrente in psicologia piuttosto nuova è la scienza della felicità (ingl.: “happyology”,“eudology”; ital:: “eudologia”). Essa domanda quando e come gli esseri umani siano felici e ritiene la sofferenza come l`apertura di un passaggio verso qualcosa di nuovo1:
“Gli esseri umani sentono sì il dolore, ma lo respingono subito. Ciò è comprensibile, ma la resistenza prolunga il dolore. D’altronde, ogni sensazione dolorosa si calma ben presto quando siamo pronti per una sola volta a sperimentarla pienamente. Colui che accetta un`esperienza dolorosa la perde anche prima”. (Prof. Ed Diener, University of Illinois USA, nel giornale Der
Standard/Wissenschaft)
Stress e sofferenza derivano anche dal mancato accadimento di eventi perseguiti o sperati come nel caso di un’infertilità non voluta, di affetti non ricambiati oppure di una carriera non realizzata. L´amara consapevolezza che i sogni non si realizzano, spesso porta a perturbazioni emotive. Vi seguono disinganno, frustrazione e avvilimento. L’effetto negativo di tali “non-eventi” finora non ha ancora suscitato una grande attenzione nel mondo della ricerca.
Il professore di psicologia Siegfried Preiser dell’Università di Francoforte ha svolto uno studio in tal senso con 40 persone che negli anni precedenti erano stati costrette a perdere scopi per loro significativi come, ad esempio, una carriera professionale. (rivista Zeitschrift für Psychologie, 213,2005), Come quei soggetti hanno vissuto l`evento critico, cosa li ha aiutati a superarlo?
La ricerca ha evidenziato ché una crisi può essere sfruttata come chance, se è possibile il confronto con se stessi, la presenza di un ambiente sociale affidabile e, non per ultimo, la possibilità di collocare tutto questo processo all`interno di un significato ampio e completo.
1 „La persona felice un giorno ha rinunciato ad evitare la sofferenza. Si è resa conto che la via alla felicità non è una deviazione attorno al dolore, ma un passaggio che lo attraversa direttamente. Tutta l’insoddisfazione, tutte le animosità, le dipendenze da condizioni esteriori nascono soltanto a causa del rifiuto di guardarsi il proprio dolore e di viverlo a fondo”.( cf. Ed Diener, Der Standard/Wissenschaft).
Dopo un processo di distacco, vissuto a lungo e dolorosamente, sembra che i nostri intervistati non solo abbiano superato la situazione, ma che anche vedano per loro delle conquiste di sviluppo notevoli. I risultati dimostrano che i “non-eventi" spesso danno inizio ad un processo doloroso di elaborazione, alla cui fine più volte troviamo una radicale riorganizzazione di prospettive di vita, di valori ed opinioni. Chi è capace di adeguarsi a delle circostanze cambiate ed è disponibile a mettere in discussione gli obiettivi finora seguiti, ha più successo nel vincere la crisi di vita.
Un’ulteriore risposta competente è quella di V. Frankl che presenta la sofferenza come “compito da svolgere”per rendere unica e irrepetibile l’esistenza umana. Scrive l`autore nel suo libro in cui elabora la sua esperienza del campo di concentramento: “ Se mai la vita ha un senso, anche la sofferenza deve avere un senso. Visto che la sofferenza in qualche modo fa parte della vita – come il destino ed il morire - solo calamità e morte fanno divenire intera l`esistenza umana.” Ciò che qui necessita è la svolta dell`intera questione verso il senso della vita e della sofferenza: dobbiamo imparare che in nessun caso è importante cosa noi ancora possiamo aspettare dalla vita, ma soltanto cosa la vita si aspetta da noi. Siamo noi stessi gli interrogati, ai quali la vita ogni giorno, ogni ora rivolge delle domande – domande alle quali dobbiamo rispondere assumendo la condotta giusta e dando la risposta giusta. L´uomo può vedere la sofferenza come compito unico, deve raggiungere faticosamente la consapevolezza, che con questa sua sorte, questo suo destino egli è unico su questo mondo. Nessun altro può prenderlo su di sè. In ciò sta però anche l´occasione unica per poter dare un contributo eccezionale. (Viktor Frankl: Trotzdem ja zum Leben sagen, s.45) Interessante è anche il contributo di Marsha Linehan, psicologa statunitense, specialista fra altro dei disturbi borderline di personalità. Ella ha approntato una metodologia per imparare ad affrontare emozioni negative o dolorose. Come è noto i soggetti con disturbo borderline di personalità dissociano spesso le loro emozioni negative, poi però vengono inondati e sopraffatti improvvisamente da impulsi aggressivi o autodistruttivi fortissimi. L’insegnamento dell’autrice prevede le seguenti tappe: 1) riconoscere le emozioni negative e le situazioni stressanti attraverso l´esercizio della vigilanza interiore (innere Achtsamkeit) e attraverso la maturazione della capacità d´ introspezione,
2) permetterle e sopportarle fino ad accettarle, e per concludere invita ad 3) opporsi al sentimento negativo, facendo un atto opposto (per es. Linehan propone di venire incontro alla persona che ha causato l´emozione negativa) per interiorizzare l´esperienza, che si possono superare e trasformare sentimenti e affetti negativi.
Chiara Lubich. ci offre un approccio tutto nuovo che pur avendo le sue radici nella vita spirituale, ha risvolti psicologici concreti riguardo al tema che stiamo trattando. Ella individua nel limite a forte valenza psicologica (dolori, vuoti, fallimenti, tristezze), l’ostacolo più rilevante alla realizzazione di sé nella comunione con l’altro e nel contempo, indica nell’assunzione di tale limite la possibilità del suo superamento sull’esempio dell’uomo nuovo: Gesù crocifisso e abbandonato. Nella sua passione e morte sembrava aver perso Lui Dio, persino se stesso, eppure, in quel momento, Egli è stato pienamente annuncio, messaggio dell´Amore di Dio per gli uomini. Lì Gesù si è identificato con ogni uomo e con la sua fragilità
C. Lubich dice anche che nel grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è il nostro segreto, la nostra idea-chiave per la psicologia
Egli è figura di chi chiede "perché"? e pone la domanda più drammatica. E' la figura di tutte quelle realtà ed esperienze umane e sociali nelle quali l’individuo sperimenta la tragicità dell’esistenza. . L´uomo in crisi psicologica è come un prigioniero, che, nell’impossibilità´di agire, non si conosce più giungendo fino a perdere se stesso,
C. Lubich ci ricorda però che Gesù abbandonato ha superato il suo infinito dolore quando ha detto: “Nelle tue mani, Padre, raccomando il mio spirito”..
E ci propone Lui quale modello per affrontare l'ostacolo, l'errore, il fallimento, ecc. Per rapportarsi alla sofferenza, qualsiasi essa sia, Chiara Lubich offre ai suoi un programma, quasi una scala psicoeducativa: in esso troviamo importanti aspetti psicologici che meriterebbero approfondimenti ulteriori.
Mi limito qui a offrire qualche cenno. La disponibilità ad accettare la propria limitatezza e la propria fragilità è definita dalla Lubich con l’espressione “riconoscere il dolore”, così come è, senza analisi o razionalizzazioni.. Il passo successivo è quello di dare un nome a quella sofferenza. Nominare, incontrare ciò che fa male può avere una valenza psicologica importante perché promuove nel soggetto una nuova libertà interiore. L’esperienza negativa non condiziona più l’individuo in modo totalizzante Chiara Lubich continua proponendo una piena accettazione del dolore incontrato, quasi un abbraccio per fare di ogni ostacolo una pedana di lancio, sul modello di quello che fece Gesù che, benché sperimentasse il fallimento completo, diede la massima prova d’amore: credere e affidarsi comunque alla relazione col Padre, sul quale fondava il suo esistere. Cosa comporta questa affermazione per la nostra disciplina? Ciò che si fa proprio non si respinge, né si rimuove, ma è permesso e riconosciuto: ogni uomo ha la possibilità di identificarsi con l’umanità sofferente; non è più solo, ma unito a tutti e a ciascuno che, come lui, sperimentano dolori, ansie e sofferenze. Facendo l’esperienza di ciò che conta veramente come lo sviluppo della solidarietà e della fraternità tra gli individui,,viene più in luce quel seme divino che abita nell´interiorità di ognuno Gesù nel suo grido è proposto da Chiara come modello massimo di relazione tra gli uomini,in grado di risanare le ferite e i traumi personali e sociali, risposta alla sofferenza dell’uomo di oggi. E’ esperienza ormai diffusa che chi si propone di vivere le crisi e le situazioni dolorose in questo modo giunge ad una libertà interiore più grande. Questo modello di vita rende il soggetto meno condizionato dagli schemi interiori e dalle circostanze esteriori, favorisce lo stabilirsi di rapporti interpersonali più profondi e appaganti. Si può ammettere, che ogni dolore, ogni crisi, che viene accettata e trasformata, fa cadere qualcosa che invischia, o che è vano, e porta allo sviluppo ciò che riposa inviolabile dentro l´individuo: ogni negatività (o non essere) è per “essere”, per sperimentare una positività, portando allora quell’uomo a divenire sempre di più se stesso.