di Salvatore Ventriglia
Riflessioni iniziali
Quando pensiamo alla nostra vita entriamo in contatto con vissuti emotivi profondi e ambivalenti: paura, gioia, tristezza, inquietudine…Vissuti che traggono origine dalla consapevolezza dei limiti della condizione umana: l’irreversibilità degli eventi, l’imprevedibilità , l’incertezza del futuro, la certezza della morte che non sappiamo quando ma sappiamo che verrà. Un pensiero al quale si può cercare di sfuggire (e tante persone lo fanno) ma con il quale bisogna fare i conti prima o poi. E allora le domande: “Che senso ha la vita?”, “Che senso ha l’uomo?”, “Che senso ha la sua storia?” non hanno una risposta oggettiva; richiedono la risposta di ogni individuo perché ognuno è chiamato a dare una risposta personale al perché della propria esistenza.
E ogni individuo è unico, irripetibile, diverso da qualsiasi altro uomo; ogni storia è unica! Questa unicità fa riflettere sulla preziosità di ogni esistenza, di ogni gesto, di ogni comportamento, di ogni sentimento, di ogni anelito, di ogni cosa che appartiene a lui. E, allora, due concetti emergono dallo sfondo: libertà e responsabilità. L’uomo è libero, libero di fare-non fare, dare-non dare, agire-non agire-come agire…libero di esprimere pienamente se stesso, di cercare e di dare un senso alla sua esistenza oppure no. Ogni uomo ha una responsabilità: perché la sua unicità fa sì che solo lui può essere e agire in quel determinato modo; anche altri faranno le stesse cose ma solo lui può farle in quel determinato modo, solo lui avrà quell’impronta, nessun altro! Responsabilità anche nei confronti di altri uomini perché i suoi comportamenti influiscono sugli altri, sul contesto sociale in cui vive: la sua “presenza” incide! In ogni relazione ogni individuo può esprimersi perché c’è un altro che si relaziona a lui in un determinato modo, non potrebbe se l’altro non ci fosse e non fosse così com’è. Libertà e responsabilità, l’una dell’altra garante, l’una dell’altra espressione. Legate, quindi, e non in contrapposizione. Fatta questa premessa vediamo ora cosa ci dice la Psicologia a riguardo. Come considera l’individuo, quale valore attribuisce al senso di sé, alla storia di ognuno. E quale valore assume la relazione in tutto ciò.
Il senso di sé in Psicologia
In ambito psicologico l’uomo è stato guardato in modo diverso nei vari indirizzi teorici. Per citarne qualcuno l’uomo della psicoanalisi è un uomo che agisce spinto da pulsioni e spinte inconsce, in grado di essere consapevole e accettare la propria verità. Il cognitivismo, vede l’uomo come un soggetto attivo, elaboratore di informazioni e in grado di costruire la sua conoscenza soggettiva in base a griglie di lettura della realtà personali. L’uomo della Psicologia umanistica è un uomo libero, in grado di assumersi le sue responsabilità, artefice delle proprie scelte. Questa visione dell’Uomo mi sembra particolarmente vicina a ciò che vogliamo affermare. In essa la malattia non viene considerata, come in medicina, come un’alterazione dell’omeostasi dell’organismo ma come un blocco che impedisce l’espressione delle potenzialità insite in ogni individuo (Ma slow)). Quindi, nell’ottica della Psicologia Umanistica, in ogni uomo c’è un potenziale che costituisce la sua unicità che, nello sviluppo, ha la possibilità di esprimere pienamente. Il concetto di Sé, però, con il quale intendiamo sottolineare l’unicità dell’individuo, acquista senso solo nel rapporto con un’alterità che lo delimiti e lo separi da un non-Sé. Quindi possiamo affermare che il Sé ha senso solo all’interno di un rapporto, non ha senso staccato dalla relazione. La relazione assume un ruolo centrale all’interno della Psicoanalisi Relazionale nella quale convergono la Scuola della Psicoanalisi Interpersonale nata dall’opera di H.S.Sullivan, E.Fromm, K.Horney; la Scuola delle Relazioni Oggettuali in Gran Bretagna che dal contributo di Melanine Klein si sviluppa grazie a D.W. Winnicott, R.D.Fairbairn e H.Guntrip; la Psicologia del Sé sviluppata in America negli anni ’70 da H.Kout. I principali esponenti: Stephen A. Mitchell in un primo tempo e, attualmente, Lewis Aron hanno messo in evidenza il comune denominatore che unisce questi indirizzi teorici e, cioè, il ruolo fondamentale che gioca la relazione nella formazione e nel funzionamento della struttura psichica dell’individuo. In questa ottica e in linea con l’attuale sviluppo della Psicologia mi sembra che non possiamo staccare l’individuo e la sua storia dalle sue relazioni. E, naturale, allora, pensare al Sé non come a una realtà statica, ma coma a una realtà dinamica, in continua evoluzione. Il percorso inizia già nell’utero in base alle prime sensazioni tattili e uditive; e poi lo sviluppo e la percezione del Sé prosegue nella relazione con le figure di attaccamento. Possiamo considerare, così, la formazione dell’identità e la sua evoluzione come frutto della percezione di sé che l’individuo acquisisce in una fase iniziale nella relazione con la madre e, successivamente nelle relazioni e nelle crisi che contraddistinguono tutte le tappe evolutive della propria esistenza. Alla luce di quanto detto finora emergono due aspetti: Da un lato l’unicità e il potenziale presente in ogni individuo che è “frutto dei suoi geni e dei suoi cieli”, (Moiso 2000), intendendo con “cieli” la spinta a trascendere, ad andare oltre; dall’altro l’importanza della relazione che rappresenta la cornice nella quale il potenziale viene fuori, si esprime, reciprocamente. Soffermiamoci ora sul senso di sé nella propria storia alla luce di questi due aspetti.
Il senso di sé nella propria storia: dal Principe-Ranocchio alla Bella e la Bestia
In ambito clinico, per esprimere il concetto di guarigione, è stata utilizzata la metafora del principeranocchio: ogni individuo nasce principe o principessa, con questa identità ideale, cioè con la possibilità di esprimere pienamente le proprie potenzialità. Nel momento in cui, prendendo coscienza di sé, perde tale identità ideale, illusoria, il bambino diventa bisognoso. Qualora i genitori reagiscano in maniera controfobica all’esistenza stessa del bambino o ad alcuni suoi bisogni, ecco la trasformazione in ranocchio caratterizzato da un’identità negativa e rigida (es: il solo, l’arrabbiato, il disperato, etc…). “Guarire significa riprendere nuovamente lo sviluppo interrotto del principe o della principessa” (Berne, 1966). Vari autori hanno sottolineato l’importanza della relazione con la madre in questo percorso. Ne cito qualcuno: Winnicott e Mahaler che mettono in evidenza l’importanza della relazione con la madre; Bowlby, che evidenzia l’importanza dell’attaccamento alla madre per lo sviluppo sano del bambino; Stern, che sottolinea, nella relazione con la madre, il rapporto fin dall’inizio, tra due entità distinte, il Sé e l’altro in cui la madre regola l’esperienza del Sé. Ritornando alla metafora ritengo che, al di là della clinica in senso stretto, essa si addica alla storia di ogni uomo. Una metafora che ci fa riflettere e che pone un punto interrogativo: il rospo che relazione avrà con il principe? Possiamo coglierlo in una fiaba molto significativa: “La Bella e la Bestia” Le fiabe rivestono un’importanza particolare in Psicologia. In esse emergono i “desideri più profondi che vengono realizzati e le ansie più segrete, che vengono superate…” (Galimberti, 2006). Nell’ambito della Psicologia analitica le fiabe sono considerate come “…l’espressione più pura e semplice dei processi psichici dell’inconscio collettivo. Per l’indagine scientifica dell’inconscio esse valgono perciò più di ogni altro materiale. Le fiabe rappresentano gli archetipi nella forma più semplice, più genuina e concisa…(Von Franz M.L., 1969). In questa ottica mi sembra che la fiaba della Bella e la Bestia offra degli spunti di riflessione significativi sul senso di sé nella propria storia e sul significato della relazione. La Bestia, dopo la trasformazione, acquisisce delle caratteristiche che, alla fine dell’incantesimo, lo renderanno un principe diverso da quello che era prima di quell’avventura (ricordo che l’incantesimo è fatto da una fata che si era travestita da vecchia mendicante che il Principe aveva scacciato. E l’incantesimo avrà fine se la Bestia inizierà ad amare e sarà riamato; significativa la fine dell’incantesimo solo se ci sarà reciprocità); caratteristiche quali la sensibilità, la bontà, l’umiltà, la delicatezza, la tenerezza, la capacità di amare che manifesta in modo splendido quando libera la ragazza per permetterle di raggiungere il padre malato. Ma cosa consente alla Bestia di sviluppare questi aspetti?
Nella fiaba è l’amore della ragazza, sua prigioniera, a restituire al re la sua vera natura. Ella, benché prigioniera, non si lascia fermare dall’aspetto fisico e dalle parole e, benché impaurita, si avvicina alla Bestia, l’accoglie, le parla, coglie la sua interiorità e si pone in modo tale da fargliela esprimere. Ciascun individuo può trovarsi nei panni della Bella e la Bestia. La Bestia è nato “principe”, come nasce ogni uomo, cioè con la possibilità di esprimere pienamente il suo potenziale, la sua unicità. Un incantesimo lo trasforma in Bestia: nell’interazione con il proprio ambiente ogni uomo può assumere convinzioni rigide su di sé confermandosi in un identità negativa che, inconsciamente, cercherà di confermarsi. Una identità rigida che può ostacolare lo sviluppo delle sue potenzialità. E ogni individuo può trovare una “Bella” nel suo cammino: cioè un altro che sappia guardarlo in profondità, andando al di là delle apparenze; che sappia accoglierlo, che sia pronto a “esistere per lui e al suo esistere per sé” (Berne, 1972) E allora cosa accade? Che non si è più quelli di prima: un rapporto vero, autentico trasforma; è come la luce che illumina e dà senso al mistero insito in ogni uomo. Cioè, in ogni rapporto così, ognuno permette all’altro di esprimere parti di sé sconosciute; si sperimenta la possibilità e la libertà di rivelarsi all’altro e svelarsi a se stessi, emerge la ricchezza e la bellezza di ognuno. Ecco allora l’importanza del rapporto: l’altro ci rivela, ci fa da specchio, ci salva o ci condanna, ci fa perdere o ci redime. E’ il rapporto, allora, che svela pienamente ciò che è scritto nei “nostri geni e nei nostri cieli”, che risulta la chiave rivelatrice del nostro essere, non le nostre doti personali. E’ nel rapporto che l’autonomia dell’individuo prende progressivamente forma. E, ciò che accade in ogni rapporto d’amore; è ciò che accade nella relazione terapeutica, un percorso verso l’autonomia. In essa il paziente, potrà riscoprire e rinarrarsi la sua storia e questa narrazione lo condurrà a una nuova scoperta del suo sé, un sé innestato in una storia unica e irripetibile. Una unicità che egli avrà la possibilità , libero da condizionamenti interni ed esterni, di donare, come arricchimento alla razza umana (Berne, 1962). Questa libertà ha insito in sé anche la responsabilità: la responsabilità solo di “realizzare” se stesso? Non solo! Infatti, come confermato da recenti studi nell’ambito della Psicologia Sociale, tale autonomia, tale crescita e tale unicità trascende dalla soggettività e dalla individualità; diventa quel plusvalore, quella ricchezza del sé che si riverserà nella dimensione relazionale, sociale e culturale della razza umana. Ecco allora che il senso di sé s’intreccia con il senso più profondo della relazione. L’apice di ogni incontro autentico sarà l’espressione piena della propria individualità che non si ferma all’affermazione di sé, del proprio valore ma si estrinseca pienamente nella capacità di accogliere, di donarsi, di amare.
E’ significativo che la Bella, quando la Bestia si trasforma nuovamente in Principe, gli chiede: “Sei tu?” accarezzandogli i capelli, l’unico attributo che conserva esteriormente della Bestia.
Ciò che conta, ormai, è l’anima, è l’interiorità; è in questa dimensione che si sono incontrati, è in questa dimensione che ha senso ogni incontro, ogni storia. La predisposizione al trascendente comprende questo gioco dell’altro. Significative le parole del filosofo esistenzialista Lavelle le quali, mi sembra, esprimano splendidamente il senso più profondo dell’incontro con l’altro e del senso di sé:”Il bene più grande che posso fare all’altro non è tanto dargli la mia ricchezza, quanto rivelargli la sua”.