di Antonella Deponteantonella deponte

Il presente contributo nasce dal confronto del nuovo paradigma di psicologia e comunione con alcuni concetti che derivano dalla psicologia sociale, in particolare dalla prospettiva della cognizione sociale (social cognition). Un primo obiettivo è quello di trovare dei temi comuni che in teorie diverse e con diversi accenti preparano la novità della relazione di comunione e dell’esperienza di unità. Un secondo obiettivo è quello di raccogliere evidenze sperimentali e concettualizzazioni teoriche a proposito dei pre-requisiti cognitivi di tale paradigma nuovo. Introdurremo dapprima l’argomento della relazione interpersonale nei domini della psicologia sociale e il suo significato per lo sviluppo del Sé.

Attraverseremo la discussione sempre aperta sulla relazione tra individuo e ambiente, arrivando al concetto di un sè molteplice. Da questo nuovo punto di partenza illustreremo come sia possibile concettualizzare in termini psicologici il fatto che, in alcune condizioni, si possa arrivare ad un “Sè che non è”, primo elemento di una relazione di unità. Presenteremo poi un tentativo di descrivere questa relazione attraverso i termini della psicologia socio-cognitiva. Le relazioni interpersonali sono per definizione l’oggetto della psicologia sociale. Fin dalle origini, questa scienza ha sottolineato, in maniera ora più ora meno evidente, l’importanza dell’elemento relazionale nella costruzione dell’individuo: per rendersene conto, è sufficiente notare in letteratura la continua ripresa dell’opera di Mead (1934) e di Cooley (1910) i quali, con accenti simili, affermano che la costruzione del Sé, addirittura la percezione di un Sé, è possibile solo attraverso l’interazione con altri. In particolare, Mead (1934) sottolinea che lo sviluppo della mente e della consapevolezza, prima ancora che lo sviluppo del Sé, richiede il contributo decisivo del linguaggio e dell’interazione sociale. Le forze sociali agiscono non solo modellando l’individuo (come aveva affermato il comportamentista Watson), ma facendolo emergere: l’individuo è reso possibile dall’interazione fra le persone. Questo punto di vista verrà ulteriormente portato avanti dalla recente psicologia sociale, specie di stampo europeo. Nel 2002, Vivien Burr riprende con forza le tesi di Mead, sostenendo “…l’impossibilità di capire il significato della persona se non si comprende il suo radicamento sociale” (p. 39): è interessante nel suo lavoro la sostituzione del termine “individuo” con il termine “persona”, proprio a sottolineare il continuo gioco di interazione con l’ambiente, e l’allargamento dall’interazione all’intero contesto sociale, comprendendo quindi cultura, aspettative, interazione. Il concetto di radicamento sociale proposto dalla Burr permette di superare quello, certamente più riduttivo, di “influenza sociale”, per cui l’ambiente era l’origine di variabili che andavano a intervenire con un gioco più o meno complesso sull’espressione di caratteristiche individuali pre-esistenti nella persona. A questa visione tradizionale della psicologia sociale si affianca lo sviluppo di concezioni della persona che sanciscono non una semplice, reciproca influenza, ma proprio l’inseparabilità dell’individuo e del sociale. Si arriva fino al punto di mettere in dubbio che sia necessario immaginare una natura individuale di base, pre-sociale.  All’interno della psicologia della personalità, McAdams (1997) descrive un Sé molteplice, che cambia e si trasforma nel tempo e nello spazio (il “Protean Self” di Lifton, 1993) sotto le spinte di una società contemporanea che non permette relazioni e impegni a lungo termine (vedi anche Bauman, 2004). Mentre alcuni autori vedono solo un pericolo nella frammentazione del Sé e dell’esperienza, McAdams (1997) intravede anche un aspetto positivo di un Sé molteplice, aperto alle trasformazioni e a nuove combinazioni, maggiormente in grado di interagire efficacemente con un “qui e ora”. La molteplicità del Sé non porta necessariamente alla frammentazione e alla dissociazione, poiché esiste un processo unificante, che McAdams chiama selfing: il processo di essere un Sé (“…the process of being a Self”). L’essere quindi unifica le esperienze e le molteplici dimensioni del Sé ed è un essere agentico, l’I di James (1982), un essere che in ogni attimo si contestualizza nel mondo. L’essere agentico non richiama la necessità di un’attivazione della propria identità: al contrario, proprio perché è, la persona può concentrarsi sulla situazione e sugli altri (cioè, non essere). Le risorse cognitive non sono implicate nel recupero e nel mantenimento di uno schema di sé, possono essere liberate per una migliore, più completa e meno distorta elaborazione delle informazioni che provengono dal mondo1. È interessante a questo proposito notare che quelli che Snyder (1974) chiama high self-monitors, cioè le persone che passano più tempo ad analizzare se stessi e la congruenza tra se stessi e i propri comportamenti, sono anche quelle dotate di minore competenza sociale. Una spiegazione plausibile è che le risorse cognitive sono utilizzate prevalentemente per l’auto-analisi, a scapito dell’esame della situazione e dell’attenzione agli altri attori della scena sociale. Dall’altra parte, i low self-monitors sono dei camaleonti sociali, che trasformano continuamente il loro comportamento per assecondare ogni esigenza che emerga nella relazione con gli altri. Questo porta all’espressione di Falsi Sé (o meglio, False Self-Behavior, Harter, 1997). La molteplicità del sé è un costrutto ancora diverso, si esprime in diversi modi di essere della stessa persona in diverse situazioni, o per usare una terminologia costruttivista, in multiformi realizzazioni individuo-ambiente, ma non implica necessariamente del Falsi Sé, perché non implica necessariamente un’assenza di autenticità. Ancora una voltà però, l’esperienza di autenticità è resa possibile all’interno di rapporti significativi che promuovano l’integrazione di autonomia e relazionalità (connectedness, Harter, 1997).  Se accettiamo l’ipotesi del sociale come luogo di costruzione della persona, allora quale sociale, cioè quale relazione per una persona sana?

Le interazioni, che costituiscono il mattone delle relazioni sociali, sono paragonate da Burr a una danza, in cui ci troviamo ad integrare i nostri passi con i passi del partner. È l’”azione congiunta” di Shotter (1993), che sottolinea l’idea che la nostra condotta interattiva non sia tanto una funzione dei piani, delle intenzioni o delle disposizioni degli individui che vi prendono parte, ma sia piuttosto il risultato dell’interazione stessa: un’attività in larga parte spontanea, irriflessiva, sconosciuta ma non inconoscibile. Nel momento in cui l’individuo entra in relazione, si trova in una situazione di flusso (flow, Csikszentmihalyi, 1995) in cui le caratteristiche altrui e i fattori della situazione interagiscono con le caratteristiche disposizionali e motivazionali dell’individuo. Portiamo noi stessi nell’interazione, ma contemporaneamente veniamo trasformati da essa. Essere se stessi sembra coincidere con l’esperienza interattiva e parzialmente inconsapevole di “flow” (Butt, Burr e Bell, 1997). Estendendo l’analisi che abbiamo fatto finora, possiamo arrivare a pensare che tanto questa danza risponde ai bisogni fondamentali e costituitivi degli esseri umani2, tanto la reciprocità da essa innestata sarà positiva per lo sviluppo della persona e del suo benessere. Una relazione positiva caratterizzata da reciprocità possiede alcune caratteristiche e porta ad alcuni effetti. Cerchiamo di analizzarli esaminando un ipotetico flusso comunicativo dall’individuo A all’individuo B, in quella che chiameremo “relazione di comunione” o “esperienza di unità”. In primo luogo, l’individuo A si muove verso l’individuo B, con l’intenzione esplicita o implicita di “amarlo”. Qui, l’”amore” può essere considerato una motivazione prosociale, benché probabilmente questa seconda definizione non colga completamente il suo significato più profondo. Affinché l’amore sia efficace, cioè venga percepito come tale dall’individuo B, A deve capire come l’altro vuole essere amato, e quindi deve spostare il flusso attentivo dall’interno – se stesso – all’esterno, l’altro. In una parola, deve assumere la prospettiva altrui. La capacità di assumere la prospettiva altrui potrebbe essere definita empatia, se nell’uso e abuso di questo termine non si fosse perduta la fondamentale componente cognitiva. Assumere il punto di vista dell’altro è invece primariamente un fatto cognitivo (Stephenson e Wicklund, 1983), che costituisce la base della competenza sociale e nello stesso tempo rappresenta una formidabile possibilità per lo sviluppo del pensiero (vedi Piaget e Brunner), nonché per l’ampliamento delle categorie mentali (Pantaleo e Wicklund, 2001).  Tale slancio però, per essere avvertito dall’individuo B, deve essere reso concreto e trasformato in azioni. Operazionalizzando la sua apertura all’altro, l’individuo A mette in atto, se ce ne fosse bisogno, un’opera di rafforzamento del suo atteggiamento positivo verso B (cfr. teoria dell’autopercezione di Bem, studi sull’autopersuasione). Inoltre, a livello cognitivo, A deve attivare schemi che prevedano un B dotato di positività, magari in misura minima (“Non mi piace, ma è un essere umano) ma sufficiente per giustificare l’atteggiamento e motivare l’atto che sta per compiere nei confronti di B. Quando B risponderà al comportamento di A, sarà probabile che A trovi in quella risposta una conferma alle ipotesi di positività di B che aveva formulato: è l’effetto che Rosenthal e Jacobson già nel 1968 chiamano “effetto Pigmalione” o profezia che si autoadempie3. L’esperienza di venir accettati e compresi in sé, senza dover ricorrere ad atti di compiacimento o a particolari strategie di autopresentazione, favorisce lo sviluppo della fiducia in se stessi e negli altri (Erickson, Rogers, Bowlby), quindi un abbassamento delle difese normalmente presenti. Favorisce anche lo sviluppo di quello che Deci e Ryan (1985, 2000) chiamano autodeterminazione: bisogni psicologici di base come competenza, autonomia e relazionalità, sono “ condizioni necessarie per la crescita e il benessere delle persone, della loro personalità e delle loro strutture cognitive” (Deci e Ryan, 2000, p.7). Tali bisogni vengono soddisfatti in maniera ottimale in un ambiente sociale che appoggi “…gli sforzi dell’organismo di lasciarsi coinvolgere in ogni nuova situazione e raggiungerne la padronanza” (ibidem, p.9) e che porti alla soddisfazione relazionale (p.14)4. L’individuo si sente parte di un flusso interattivo, nel quale non è necessario monitorare costantemente l’impressione di sé (cfr. l’esperienza di flow di Csikszentmihalyi), perciò è più libero di rispondere alla situazione, può permettersi anch’egli, come già aveva fatto A, di spostare l’attenzione dal Sé all’Altro. Non sappiamo ancora se risponderà con la reciprocità, ma è più probabile ad ogni modo che la sua risposta sia più spontanea, le informazioni più affidabili, il Sé più vero5.


McAdams (1997) riferisce un’altra fonte di unità per il Sé: le life stories, le storie di vita. In particolare, è interessante il fatto che accenna alla Generatività come categoria verso la quale convergerebbero le storie di vita che sono maggiormente in grado di dare un senso di unità al Sé.
2 Deci e Ryan (2002) individuano tre bisogni di base: autonomia, relazionalità e competenza.
3 La cosa interessante è che l’effetto Pigmalione è sufficientemente indipendente dai dati obiettivi presenti nella situazione, cioè nel nostro caso dalla risposta di B, almeno stando ai dati sperimentali di cui siamo a conoscenza. Ne consegue che, indipendentemente dalle caratteristiche di partenza dell’individuo B, lo schema positivo attivato da A avrà comunque il suo effetto. In linea di massima, appare quindi sensato adottare una visione positiva dell’altro, perché questo provocherà in media risposte più positive.
4 È da notare che essi assumono un particolare significato per “autonomia”. Se infatti la parola autonomia è tradizionalmente affiancata in psicologia al concetto di indipendenza dagli altri, nella teoria dell’autodeterminazione (Self-determination Theory, SDT, Deci e Ryan 1985, 2000) essa assume sfumature diverse, legate alla relazionalità. Per usare le parole di Deci e Ryan: “… l’orientamento autonomo è la capacità di regolare il proprio comportamento sulla base degli interessi e dei propri valori; è un indice della generale tendenza della persona verso una motivazione intrinseca e una ben integrata motivazione estrinseca” (p.21).
5 (Deci e Ryan, 2000; Harter, 1997) 

Questo sito utilizza cookie tecnici, anche di terze parti, per consentire l’esplorazione sicura ed efficiente del sito. Chiudendo questo banner, o continuando la navigazione, accetti le nostre modalità per l’uso dei cookie. Nella pagina dell’informativa estesa sono indicate le modalità per negare l’installazione di qualunque cookie.