I miei limiti sono ostacoli verso la felicità, quindi da evitare, nascondere e possibilmente cancellare. O no?
Inutile nascondercelo, la parola “limite” non piace a nessuno. Sa di prigione, di spazi angusti, d’aria stantia. Oggi, più che mai, il limite non è accettato. Ci s’impegna a strafare per battere d’una frazione di secondo il record d’una gara; per superare, in sport estremi o in azzardate spedizioni turistiche, il limite che ci s’impone da soli. A costo di rischiare irresponsabilmente la vita.
Non sono accettati i limiti estetici del corpo, le labbra un po’ striminzite, la ciccia che incurva un po’ il profilo della maglietta, i capelli che se ne vanno, i seni non più tonici come nella gioventù.
Nonostante si scelgano con accuratezza i vocaboli per dimostrare la nostra comprensione verso i meno fortunati, non piacciono i limiti di intelligenza, quelli provocati dalle malattie, quelli che annegano nell’invisibilità sociale. Insomma, il limite non piace.
E se qualcuno ci fa un’osservazione, volta a sottolineare un nostro limite, la respingiamo prontamente al mittente, fermamente convinti che sia lui a non aver capito nulla di noi. Poi, il limite ultimo, la morte, quello proprio non va giù. Dato che non si può batterlo, si tenta d’ignorarlo.
Ma paradossalmente, forse proprio nel limite è celato il segreto della vita. È un po’ come il ranocchio, il limite, che baciato diventa principe. Nella sua sgradevole figura è infatti compresso qualcosa d’immenso, che oggi è svalutato. Gli antichi greci, che tanto amavano l’armonia, la attribuivano proprio al limite. La perfezione d’un triangolo è infatti visibile mediante il limite dei suoi lati; la suggestiva sagoma dell’Acropoli la percepiamo tramite i limiti delle sue colonne e del suo tetto. Anche le realtà fisiche le conosciamo perché sperimentiamo i limiti: sappiamo che una cosa è calda, perché il caldo è separato dal freddo. E ogni separazione marca un limite.
Il limite permette d’incontrarci. Possiamo stringere una mano, baciare una guancia, mettendo in contatto i confini che delimitano i nostri corpi. Inoltre, se non avessimo i limiti morali – i cosiddetti difetti –, probabilmente non c’incontreremmo mai.
Socrate, il filosofo, sosteneva che il punto di partenza della saggezza fosse proprio la consapevolezza del limite. La sua famosa frase «conosci te stesso» continua a rimanere un invito a venire a patti con i propri limiti, per dare il meglio di sé stessi e non esaurirsi in inutili, patetici o distruttivi tentativi d’affermarsi al di là delle proprie possibilità, spesso a spese della decenza e della dignità. Affermava inoltre che il limite è scala verso la sapienza: se sai d’essere ignorante puoi imparare.
Noi conosciamo il limite perché abbiamo impresso nell’anima il marchio dell’infinito. I nostri desideri, le nostre pretese più recondite anelano d’infinito. Un cordone ombelicale invisibile ci lega all’Eden. Ovvio che i limiti ci diano fastidio. Ci rattrista la mancanza di bellezza, perché siamo fatti per la bellezza assoluta.
Ma, per uno “strano” meccanismo insito nella creazione, la sete d’infinito che ci pulsa in cuore appare impedita da limiti che tutt’attorno sembrano sbarrarci la strada. È allora comprensibile che tanti li vogliano bruciare: scalare una montagna inaccessibile, battere un record, oppure solamente apparire più carina al mattino di fronte ai colleghi nonostante l’età, sono segni che in noi alberga qualcosa che ci spinge verso l’illimitato.
A volte però l’ossessione di battere i limiti, ci fa correre il rischio di fermarci a dei surrogati. E di lasciarci sfuggire proprio la bellezza dei limiti, insomma di non vedere il principe nel ranocchio. Essere limitati, infatti, ci permette di riconoscere la nostra dipendenza dal Creatore. Una dipendenza che s’articola secondo le modalità dell’amore.
È l’amore che spinge Dio a dare la vita, inizio d’ogni limite. Sull’amore si basa la dignità e la preziosità d’ogni persona: nei limiti del corpo e della psiche è scritta la nostra irripetibile unicità. Con una frase che non ammette spiegazioni, che è tutta intuizione cristallina, Simone Weil diceva: «Il limite è la prova che Dio ci ama».
Ricordo mia mamma, anziana, una donna semplice, ormai consumata dalla malattia: se la sua genuina umiltà (virtù rara e segno di profonda intelligenza) la faceva sentire a suo agio nei limiti di creatura nonostante la sofferenza, il suo sguardo, le sue parole tremanti, erano invece testimonianza che siamo fatti per qualcosa d’immenso, che il nostro destino è infinito.
Paradossalmente, proprio l’accettazione del limite fa scoprire il significato della frase della Scrittura: «Voi siete dèi». La matematica aiuta un po’ a comprendere questo: per essa il limite non è un confine, uno sbarramento, ma una tensione verso una meta. I limiti in cui c’imbattiamo ogni giorno sono segni della nostra tensione verso l’infinito. Tappe preziose d’una progressione verso la pienezza. Senza limiti.
Limite + misericordia = libertà
I nostri figli hanno reagito in modo molto diverso ai paletti da noi posti sul loro cammino, ma ci sembra che comunque abbiano acquisito l’abitudine ad alzare il tiro davanti alle difficoltà e una buona capacità di personalizzare il proprio percorso.
C’è però una condizione essenziale perché il limite produca risultati. Occorre fornire, insieme al limite, la sicurezza che esiste sempre lo spazio per ricominciare qualunque cosa sia successa; che esiste alla base un patto, rinnovato ogni giorno, di vedere sé stessi e l’altro sempre nuovi. Solo il limite combinato con la misericordia reciproca produce libertà.
Lidia Osele
Il limite del governare
Una politica interpretata come servizio all’unità della famiglia umana fa suo questo limite: che l’altro, gli altri siano soggetti attivi nella costruzione della polis.
Certo, la partecipazione dei cittadini è un rischio per la tempistica di chi ha il dovere della risposta urgente ai problemi. E poi quanta partecipazione? E per quali decisioni?
Nel nostro tempo c’è un motivo in più per sciogliere questi nodi: oggi la politica non ha bisogno di piccoli accomodamenti, bensì di una cultura nuova, per le trasformazioni integrali di cui necessita. E i limiti – il limite dell’ascolto delle ragioni dell’altro, ma anche il limite del numero dei mandati, il limite delle indennità… – sono dalla parte delle risposte, non dei problemi.
Grazia Centi
Oltre il fallimento
Invece siamo veramente noi stessi solo se siamo in relazione con gli altri, in quanto l’altro mi rivela chi sono, mi fa essere, ma solo se sono in rapporto di unità, di comunione con lui.
Chiara Lubich ha parlato spesso dell’essere nulla come condizione indispensabile per arrivare al rapporto pieno con l’altro, all’unità. È un nulla voluto per amore, per lasciare pienamente lo spazio all’altro, per farlo essere, per essere insieme. Non è il nulla che mi fa perdere nell’altro, negando la mia diversità, ma quello che mi fa ritrovare più pienamente me stessa, perché amore.
Questo sacrificio di sé non va considerato come una diminuzione, ma al contrario come il pieno possesso di sé, come afferma Jung. Ognuno di noi, infatti, non può donare ciò che non possiede. Sicché nel dono di me, paradossalmente, sperimento ciò che in effetti sono, le risorse e le capacità che di me fanno parte, che mi costituiscono nella mia individualità.
Ma l’unità non è sempre facile: a volte, per ricomporre la separazione e il conflitto, l’unica possibilità è l’estremo dono di sé, la completa e incondizionata assunzione del limite.
Il coraggio di esporsi alla sconfitta e la determinazione di accettare e attraversare il limite si delineano così come atteggiamenti che fondano la salute mentale di un individuo. Il limite si manifesta all’uomo in quelle esperienze che comportano per lui il rischio della frustrazione, della sconfitta, dello scacco, del non essere corrisposto nella sua disposizione all’apertura.
L’assunzione del limite in questo caso si concretizza nel far dono dell’attesa delusa, affinché l’altro emerga nei tempi e nei modi attraverso cui si esprime la sua unicità, la sua identità individuale. È evidente che tale non corrispondenza può essere originata anche da me. Nonostante la mia iniziale disponibilità, la reciprocità comunionale può all’improvviso trovare in me stessa, nella mia demotivazione, nella mia chiusura, nel mio ripiegamento, il blocco psicologico che le impedisce di evolvere.
Anche qui l’assunzione del fallimento, che questa volta si origina in me, può costituire l’atteggiamento decisivo per riannodare quella trama relazionale, forte e al tempo stesso delicata e fragile, che è la comunione. L’assunzione del limite, nel rapporto con gli altri, dà dunque luogo a relazioni mentalmente sane, capaci di alimentare e sostenere il sé di ciascun partner.
E anche nel caso di non corrispondenza rende possibile la reciprocità e, con essa, la più elevata forma di relazione fra gli uomini, la comunione, dove finalmente appartenenza ed individuazione, unità e molteplicità, si integrano in tutta la loro pienezza.
Simonetta Magari