L’imprenditore: una legge per il lavoro
di Alberto Ferrucci
pubblicato su Città Nuova n.7/2010
Quando si è capito che la Grecia aveva truccato vicino al 3 per cento un deficit di bilancio che era al 12,7 e si è avvertito il rischio di speculazioni su titoli di altri Paesi europei tra cui il nostro, la prospettiva del baratro dell'uscita dalla moneta unica faceva sparire dal dibattito politico ogni ipotesi di aumento di spesa pubblica in favore del lavoro. Una decisione giusta come tattica, che però non può diventare strategia: abbiamo bisogno di un domani in cui i giovani, grazie a un rapporto di lavoro per quanto possibile stabile, possano mettere su famiglia.
Rapporti di lavoro così sono anche un’aspirazione delle aziende, che però oggi esitano a instaurarne di nuovi perché in Italia è più semplice divorziare dalla moglie che terminare, per esubero di personale o scarso rendimento, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Nelle aziende che occupano più di quindici dipendenti, chi viene lasciato a casa ha il diritto di far causa, e nel caso di vittoria in giudizio, avrà diritto, oltre alle penali contrattuali, a ricevere lo stipendio per l'intero tempo del processo: almeno tre anni, dopo il quale vi è anche l’eventualità della reintegrazione.
Il vantaggio per l'azienda, nel caso di incremento del numero di dipendenti occupati, sarebbe che per tre anni essa potrebbe conteggiare un credito d’imposta pari all’ammontare delle imposte a carico del lavoratore. Questa agevolazione avrebbe per lo Stato un impatto finanziario nullo perché esso rinuncerebbe a queste imposte, non compensabili con Iva o Irap, solo a fine anno e in caso di azienda in utile, avendo già incassato altrettanto dalle imposte detratte al lavoratore nel corso dell’anno.